Dopo il bellissimo “Hellraiser”, Clive Barker torna a dirigere la trasposizione di un suo romanzo, dando vita allo splendido e sottovalutato “Cabal” (1990)
E’ passata tanta acqua sotto i ponti, dall’ormai lontanissimo 1972, anno che vide la nascita della Atari e il lancio del mitico Pong, il videogioco (piuttosto alienante, in realtà), che emulava l’omonimo sport da tavolo con racchette e pallini: schermo nero, due tasselli bianchi in movimento, una pallina.
In un’epoca appestata dai vampiri bambocci di Twilight e company, da inutili romanzetti pseudo horror/sexy su seduttori succhiasangue da quattro soldi, quando ormai la figura del vampiro sembrava essere stata spremuta fino all’ultima goccia come la più martoriata delle sue vittime, diventando la caricatura di se stessa, ecco arrivare questo film. Una sorpresa, e di quelle belle.
Capolavoro. Classico. Cult. Tre C,come Chainsaw, tre tra i tanti aggettivi che sono stai usati, negli anni, per parlare di questo film, pellicola low budget targata 1974, girata nell’arco di un mese dall’allora trentenne Tobe Hooper, regista texano alle prese col suo secondo lungometraggio dopo “Eggshells”, del 1969.
Spiazzante. Questo il primo aggettivo che salta alla mente davanti a questa pellicola coreana del 2007, firmata da Pil-Sung Yim, regista con un solo altro lungometraggio al suo attivo (“Namgeuk-ilgi”, del 2005). Spiazzante, non necessariamente nel senso positivo del termine, ma nemmeno totalmente negativo. Un film che cambia registri narrativi molto, troppo rapidamente, affrontandoli tutti con eccessiva fretta e superficialità, senza approfondirli.
Progetto assai ambizioso e dalla genesi travagliata questo Hidden 3D, co/produzione italo-canadese di fresca realizzazione; è stata impresa affascinante ricostruire le molteplici vicissitudini legate alla realizzazione del film: basato su un romanzo di Mariano Baino, già regista nel 1993 dell’acclamato Dark Waters (film molto amato tra l’altro anche dal grande Lucio Fulci), in fase di pre-produzione ha visto susseguirsi vari girotondi di cambiamenti riguardanti gli attori e soprattutto la regia.
“The end justifies the means”, ossia, ”il fine giustifica i mezzi”. Ecco la frase-tormentone del film, pronunciata più volte, a caso, in modo banale.