Nella comunità pentecostale di Altieri non c’è Horror, ma anche il Thriller stenta davvero a farsi riconoscere.
Nel 1967, Peter Adair, famoso documentarista americano scomparso nel 1996, dirige Holy Ghost People, documentario incentrato sulla vita di una comunità pentecostale della Virginia, negli States. Qui i fedeli appartenenti al gruppo potevano godere di guarigioni attraverso mezzi spirituali, manipolazione di serpenti velenosi, glossolalia e canti religiosi. Spesso le persone impaurite o disperate si rifugiano in questo tipo di realtà, speranzosi che una vita di pentimento, semplicità e cieco servilismo conceda loro un contatto più diretto con il divino, nonché l’amore e il perdono del loro Dio.
Discorso complesso e spinoso, ma è da qui che Mitchell Altieri, sceneggiatore e regista di Lurking in Suburbia, The Hamiltons e The Thompsons prende spunto per il suo personale viaggio nella fede religiosa delle isolate comunità americane. Con Holy Ghost People, omonimo del documentario, Altieri tratteggia episodi, sfumature e ombre di una piccola chiesa pentecostale situata sui monti Appalachi, utilizzando tra l’altro anche brevi spezzoni del lavoro di Adair. Considerando un simile esempio, un tema sempre attuale e provocatorio, la possibilità di costruire un thriller inquietante e opprimente grazie all’ambientazione e al plot, sembra quasi impossibile che Mitchell Altieri abbia mancato il colpo in questo modo. Quasi, appunto.
Forse il problema di fondo riscontrabile in Holy Ghost People va oltre la sceneggiatura scarna e annoiata, perché nonostante tutto si percepisce una certa inquietudine di fondo. È un thriller sottile, bisogna dargliene atto, ma a tratti lo diventa in modo così eccessivo che sembra di assistere ad una rappresentazione naturalistica del nulla e in certi momenti pare che la narrazione sia motivata e generata dalle idee stereotipate che Altieri, nativo di Chicago, si è fatto di una delle zone economicamente più depresse degli States, gli Appalachi, e della sua popolazione. Non ci è dato sapere se davvero si sia fermato alla visione del documentario per creare la sua visione e la sua storia, ma è palese che l’ispirazione venga da lì e la trama del film sia costruita intorno ai tanti elementi religiosi presenti nell’Holy Ghost People datato ’67: la giovane Charlotte, autolesionista diciannovenne rosa dai sensi di colpa, ingaggia l’ex marine alcolizzato Wayne perché l’accompagni sugli Appalachi, alla Chiesa del Comune Accordo, in cerca della sorella che prima di scomparire le ha spedito una richiesta di aiuto. Nella comunità, guidata dal carismatico predicatore Billy che maneggia serpenti e sermoni ispirati con la stessa facilità, la coppia si troverà ad affrontare dubbi e paure, scossi da ciò che improvvisamente li circonda, mentre il mistero sulla sorte della sorella di Charlotte si dipanerà con dolore.
Definirlo thriller psicologico è calzante e il potere seduttivo della fede assoluta, con la sua contrapposizione di pace e follia, è chiaramente percepibile nel lavoro di Altieri, che tuttavia non riesce a rendere accattivante e affascinante al punto giusto un film segnato da una sceneggiatura non all’altezza. Tralasciando i personaggi stereotipati, come l’ex marine datosi all’alcol per lenire le brutture viste in guerra che tornano a perseguitarlo in incubi notturni, gli sceneggiatori Kevin Artigue, Joe Egender, Phil Flores e lo stesso Altieri sembrano basare il loro script su quello che hanno sentito dire ma su cui non si sono mai veramente informati. Nel piattume generale, sollevato in qualche occasione dalla buona recitazione dei tre protagonisti principali, in particolar modo da Egender con il suo rockabilly predicatore, si riescono a cogliere le due facce della stessa dorata medaglia religiosa, ma se il risultato doveva avvicinarsi ad opere come La fuga di Martha o Sound of my voice, l’impresa è fallita. Holy Ghost People non riesce a sfiorare la lucida efficacia delle due pellicole appena citate, sebbene il tema di fondo sia il medesimo. E la responsabilità è tutta della sceneggiatura, debole e non sempre in grado di dare un senso tangibile di minaccia, sotterfugio, inganno e pericolosità. Ci lascia in balia degli eventi, si trascina per inerzia verso il finale violento senza averci dato modo di approfondire i personaggi, se non attraverso i ricordi in flashback che paiono presi da vecchie VHS di recite da oratorio. Manca un certo spessore e gli elementi di background accennati non bastano a coinvolgere, nonostante, come ho già scritto, l’argomento trattato sia sempre attuale e nasconda risvolti estremamente interessanti non solo di carattere antropologico e sociale, ma anche cinematografico.
Holy Ghost People non è un horror e di sicuro non vuole esserlo, ma anche fregiandosi come thriller non riesce a convincere in maniera totale. Altri film prima di lui hanno percorso, in modo migliore, la strada del fanatismo, della follia e della religione e basta l’immenso Christopher Lee di The Wicker Man a dimostrarlo. Mitchell Altieri è comunque un regista capace e sarà interessante seguire la sua carriera, ciononostante questo film, per quanto pervaso da sottile inquietudine, non è capace di colpire particolarmente. Se non, forse, in un modo: rendersi conto che realtà simili a quella descritta esistono, non solo negli States ma anche vicino a noi. E questo non può non lasciare turbati.
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