Il prolifico Joe D’Amato dirige con Antropophagus (1980) uno dei suoi film più estremi, un cult assoluto dell’horror gore italiano
Fra i più prolifici registi di ogni tempo insieme a Jess Franco, Joe D’Amato (pseudonimo di Aristide Massaccesi) è stato un grande artigiano del nostro cinema: prima di dedicarsi al porno tout-court, ha realizzato negli anni Settanta e Ottanta numerose pellicole che si possono definire – con un termine non proprio elegante – di exploitation, dall’horror puro all’esotico-erotico (spesso unito a elementi orrorifici e a scene hard), con una mescolanza di generi non frequente. Maestro nella fotografia (esordisce infatti come direttore della medesima), dopo l’horror gotico La morte ha sorriso all’assassino (1973), realizza qualche anno dopo una sorta di ideale “trilogia” gore-splatter: Buio omega (1979), Antropophagus (1980) e Rosso sangue (1981), tre film diversi e indipendenti l’uno dall’altro ma accomunati da un inconfondibile gusto per l’estremo e l’eccesso (i primi due in particolare).
Dopo lo scioccante Buio omega sulla necrofilia, Joe D’Amato esplora il territorio del cannibalismo (appena accennato nel precedente): il cannibal-movie era un filone horror che all’epoca andava per la maggiore (Deodato, Lenzi, Martino), e Massaccesi lo esplora in maniera personale, prima con il più classico (ed erotico) Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977), poi con Antropophagus. Il film diventa negli anni un vero e proprio cult, simbolo dell’horror estremo italiano, tanto da essere citato e omaggiato più volte: per esempio, dallo stesso D’Amato nel successivo Rosso sangue (che comunque non è un sequel), da Fulci in Quando Alice ruppe lo specchio e dal regista tedesco Andreas Schnaas, che nel 1999 ne realizza una sorta di remake con Antrophagus 2000.
Nel nostro film, ci allontaniamo dalle classiche foreste con indigeni per spostarci su un’isoletta al largo della Grecia, dove all’inizio del film una coppia di turisti viene barbaramente uccisa. Tempo dopo, alcuni ragazzi in vacanza offrono un passaggio a Julie (Tisa Farrow), diretta proprio su quell’isola per trovare una coppia di amici: sbarcata sul luogo, la comitiva si rende conto che il paese è disabitato. L’atmosfera è lugubre: tutti sembrano fuggiti in fretta e furia, la sensitiva Carol (Zora Kerowa) percepisce presenze malefiche e una strana donna li avvisa di andarsene. Non prestando ascolto all’avvertimento, il gruppo raggiunge la casa degli amici di Julie: qui incontrano Ariette, la loro figlia cieca, da cui scoprono che un essere mostruoso ha trucidato i genitori. I ragazzi man mano scompaiono o vengono uccisi, mentre i superstiti raggiungono un’austera villa che si rivelerà decisiva per scoprire il mistero: qui abitava infatti il “mostro”, Klaus Wortmann (George Eastman), un uomo diventato pazzo dopo aver dovuto cibarsi di moglie e figlio durante un naufragio. Il gruppo deve così difendersi dalla follia assassina del cannibale.
Sceneggiato da Luigi Montefiori (Eastman) su un soggetto scritto in coppia col regista, Antropophagus dichiara la sua natura fin dal titolo, ma in realtà è un cannibal-movie molto sui generis: non solo per la straniante e suggestiva ambientazione (ottenuta attraverso un abile montaggio di location, dall’Italia ad Atene), ma anche per la contaminazione con il gotico – elemento presente anche in Buio omega. Pur essendo giocato soprattutto sugli impressionanti effetti speciali, il film suscita anche brivido: solitamente, gli horror sui cannibali producono nello spettatore ribrezzo e fastidio, ma difficilmente paura. Qui invece entra in scena anche l’elemento perturbante: c’è un mistero da risolvere, una presenza (in origine non definita) che semina morte, c’è la storia di un uomo che ha divorato la sua famiglia e tutta una serie di situazioni che creano suspense. Ecco dunque entrare in gioco le atmosfere gotiche di cui si parlava: le strade deserte, il cimitero, la cripta con gli scheletri, la lugubre e immensa villa con tanto di stanza segreta dove sono conservati i cadaveri. È una sorta di riproposizione, in salsa moderna e splatter, di vari topos del genere gotico – che il regista dimostrava di amare già dai tempi del bellissimo La morte ha sorriso all’assassino. Qui sono bandite però tutte le componenti oniriche presenti nel suddetto: l’orrore è concreto, reale, viscerale – nel vero senso della parola. L’immagine-simbolo del film è infatti quella conclusiva, in cui Wortmann – colpito da una picconata al ventre – si trova con le viscere di fuori e le addenta avidamente prima di cadere morto al suolo. È l’uomo che si auto-fagocita, il cannibalismo portato ai suoi vertici estremi, anche senza cercare significati metaforici che Joe D’Amato sicuramente non voleva trasmettere.
Tutto Antrophopagus è un susseguirsi di immagini scioccanti. Ecco quindi la testa spaccata in due con un colpo d’ascia (già all’inizio), il ragazzo sbranato al collo, Ariette col volto scarnificato e la gola mangiata con voracità, e la celeberrima scena del feto. Wortmann, dopo aver sequestrato Serena Grandi (accreditata come Vanessa Steiger) in una cripta, le estrae con le mani il feto che portava in grembo e lo addenta con goduria: realizzato con un coniglio spellato unito a un budellino (che sarebbe il cordone ombelicale), l’effetto speciale è talmente realistico e impressionante da aver causato la falsa accusa di essere un snuff-movie. Fra tutte queste immagini estreme, a cui si aggiungono una testa mozzata, gole tagliate, cadaveri e sangue a volontà, il film scorre che è un piacere per gli amanti del genere. Oltre al finale dal sapore quasi slasher, fra le scene più spaventose bisogna citarne almeno due: l’improvvisa comparsa della ragazza cieca, che fuoriesce da una botte sferrando coltellate nel vuoto, e l’entrata in scena dell’assassino, illuminato da un lampo nel buio della stanza. Notevole la cura estetica del film, che rivela tutta la passata esperienza di Massaccesi come direttore della fotografia, abile nel ritrarre in maniera spettrale sia gli esterni dell’isola e del villaggio che i chiaroscuri della villa e della cripta. Sono presenti anche inquadrature abbastanza ricercate, come la suddetta comparsa di Eastman in un lampo di luce o la ripresa dal basso della donna che si impicca. Le musiche, inquietanti e con accenti quasi psichedelici, sono composte da Marcello Giombini.
George Eastman, con il suo fisico alto e poderoso, è perfetto per il ruolo e protagonista di una performance notevole soprattutto nella mimica facciale da pazzo, a cui si aggiunge un bel lavoro di make-up sul volto orribilmente butterato. Fra gli altri membri del cast, da notare l’americana Tisa Farrow (sorella della più celebre Mia e interprete di altri due celebri film italiani, Zombi 2 e L’ultimo cacciatore, Saverio Vallone (figlio del grande Raf), Zora Kerowa (presenza frequente in quegli anni), una giovane Serena Grandi e anche la scrittrice Margaret Mazzantini – che, sotto lo pseudonimo di Margaret Donnelly, interpreta Ariette.
About Davide Comotti
Davide Comotti. Bergamasco, classe 1985, dimostra interesse per il cinema fin da piccolo. Nel 2004, si iscrive al corso di laurea in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo (laurea che conseguirà nel 2008): durante gli studi universitari, ha modo di approfondire la sua passione tramite esami di storia, critica e tecniche del cinema e laboratori di critica e regia cinematografica.
Diventa cultore sia del cinema d’autore (Antonioni, Visconti, Damiani, Herzog), sia soprattutto del cinema di genere italiano (Fulci, Corbucci, Di Leo, Lenzi, Sollima, solo per citare i principali) e del cinema indipendente di Roger A. Fratter.
Appassionato e studioso di film horror, thriller, polizieschi e western (soprattutto italiani), si occupa inoltre dell’analisi di film rari e di problemi legati alla tradizione e alle differenti versioni di tali film.
Nel 2010, ha collaborato alla nona edizione del Festival Internazionale del Cinema d’Arte di Bergamo.
Scrive su "La Rivista Eterea" (larivistaeterea.wordpress.com), ciaocinema.it, lascatoladelleidee.it. Ha curato la rubrica cinematografica della rivista Bergamo Up e del sito di Bergamo Magazine. Ha scritto inoltre alcuni articoli sui siti sognihorror.com e nocturno.it.
Ha scritto due libri: Un regista amico dei filmakers. Il cinema e le donne di Roger A. Fratter (edizioni Il Foglio Letterario) e, insieme a Vittorio Salerno, Professione regista e scrittore (edizioni BookSprint).
Contatto: davidecomotti85@gmail.com
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