Jonathan Maberry ha scritto La notte degli Zombie immaginandola come un’opera autoconclusiva. Un esperimento basato sul mashup tra situazioni tipiche del filone zombie e stilemi classici del thriller.
Un’operazione già portata a termine con Patient Zero, dove i walking dead venivano innestati in una adrenalinica line drama in salsa spionistica con gli zombie sotto forma di arma batteriologica in mano a una cellula terroristica islamica. Così come Patient Zero non è stato che l’incipit di una saga interamente dedicata alle scorribande dell’antieroe Joe Ledger (con variazioni sul tema tra le più disparate, dove horror, sci-fiction, fantasy e thriller si intrecciano fino a diventare indistinguibili) anche l’invasione dei morti viventi nella contea di Stebbin è solo il primo passo di una nuova scorribanda che trasformerà questo romanzo ex stand alone in una serie.
I possibili sviluppi dello zombie outbreak di Stebbin sono, in effetti, assai appetibili. Si parte con un classico risveglio di morti viventi, per affondare fino al collo in un pasticciaccio brutto scatenato da un insensato progetto governativo risalente alla guerra fredda. Un ex medico assoldato dell’intelligence Usa ha portato avanti in segreto un protocollo top secret pensato per annientare il blocco sovietico. Un siero in grado di preservare la coscienza all’interno di un corpo morto. La versione estrema e potenziata della sindrome locked in – la condizione dei pazienti colpiti da gravi paralisi, incapaci di muoversi e di parlare anche se coscienti – sviluppata sotto il nome in codice di Progetto Lucifero 113. Lucifero, come il simbolo della rivolta alle leggi divine che rovescia il male nell’universo (nella foto a detra, intento, non a caso, a divorare uomini).
Il primo a sperimentarla è un serial killer sanguinario con un debole per il cannibalismo. Il folle scienziato gli somministra il siero durante l’esecuzione della pena capitale mediante iniezione letale. L’idea sarebbe quella di imporgli un castigo peggiore della morte, mandandolo sotto terra per sempre, a marcire con la consapevolezza di farlo. L’intervento di una parente di cui nessuno era a conoscenza dirotta il novello Lucifero a Stebbin. Qui la sua fame contagia ben presto l’intera cittadina, sconvolgendo moltissime vite. Tra cui quella dell’agente di polizia Dez-Desdemona Fox, del suo partner J. T. e dell’ex fidanzato della ragazza, il reporter Billy Trout. Tutti coinvolti nel disperato tentativo di salvare se stessi e i propri concittadini non solo dagli zombie, ma anche dalle autorità, decise a estirpare il contagio radendo al suolo Stebbin e sterminandone la popolazione.
C’è una piccola cittadina, dunque, con i suoi personaggi caratteristici e i tic dell’America profonda. Un luogo che diventa la cartina al tornasole per un’apocalisse su larga scala. Il principio, ben sfruttabile e ben sfruttato, è figlio del modello-King e riverbera di fiction televisive stile Jericho. Si parte da un posto che tutto è fuor che l’ombelico del mondo per scandagliare, strato, su strato, manifestazioni ed effetti della Fine. Il rovesciamento di tanta narrativa nostrana che, anche quando sceglie temi e ambientazioni universali, finisce per rinchiudersi nel solito pianerottolo intimista. Per capire cosa accada Stebbin con il primo morso del redivivo assassino seriale bisogna immaginare l’Armageddon in una delle nostre tante province; a Velletri, tanto per fare un nome a caso. Ecco, immaginate un giornalista del posto alle prese con l’ultima storia del mondo come l’abbiamo conosciuto. Riuscirà a far arrivare la verità all’audience internazionale, verrà eliminato o, peggio, preso per un pazzo mitomane? Il mondo sarà pronto ad accettare l’idea che salvare Stebbin (o Velletri) sia la massima priorità per tutte le nazioni del globo e che, per farlo, si può, si deve, evitare la carneficina?
C’è un detto calabrese che viene usato per minimizzare un evento spiacevole; recita, più o meno: «Fa conto che ha moruto un molisano». Rivalità campanilistica a parte (e senza offesa per i cittadini del Molise), l’idea è che ci sono posti dove nulla di ciò che accade lascia traccia. Come se ogni persona, donna e bambino che li abita fosse un albero di altra proverbiale memoria, quello che stramazza al suolo nel bel mezzo della foresta, senza nemmeno uno scoiattolo come testimone. E invece il dramma di quell’arbusto può essere, nelle mani, nella penna giusta, epico e drammatico come la deforestazione dell’Amazzonia. Gli americani, c’è da dirlo, l’hanno capito da tempo. A spulciare geografie dimenticate a caccia di location sperdute per straordinarie epopee sono diventati davvero bravi. Maberry (nella foto a sinistra) ne è la conferma. La sua Stebbin si slabbra a dismisura, una piccola porta spalancata su un inferno gigantesco. Il tutto al servizio di una struttura narrativa solida, senza colpi di testa e priva di guizzi veramente alti, eppure capace di insinuarsi riga per riga in tutte le caselle giuste. Jonathan Maberry si distingue nel mare magnum degli autori specializzati in ghoul antropofagi per l’eclettismo del suo approccio e la bravura nel gestire le sottotrame, tanto gialle quanto rosa, che affollano i suoi romanzi. La tendenza del momento, ovvero la contaminazione dell’horror per facilitarne lo sdoganamento al pubblico mainstream e, di conseguenza, la smerciabilità, diventa per lui l’occasione per giocare al rialzo. Invece di spacciare un thriller per un romanzo orrorifico prende un serial killer e gli dona una seconda vita da zombie. Per saltare di paradosso in paradosso, poi, gli concede una vera capacità introspettiva solo da non-morto, prendendosi il gusto – e il tempo – per scandagliare nella mente dei suoi undead costretti, loro malgrado, a divorare persone innocenti senza potersi trattenere. Uno straordinario esercizio di riflessione metafisica privo di controparte nel racconto. Gli zombie di Stebbin pensano, soffrono, piangono. Nessuno li sente. Il loro comportamento non è minimamente influenzato dai loro sentimenti. Violano la regola numero uno dei walking dead: sono capaci di empatia. Un evento clamoroso, più di una flottiglia di serial killer in fissa per il paté di fegato umano innaffiato di Chianti. Un evento che non c’è, custodito nella buia foresta deserta delle loro calotte craniche.
Il messaggio tra le righe è abbastanza chiaro: se c’è un genere capace di inglobare tutti gli altri, di portarli a un livello più profondo, questo è l’horror. E tanti saluti a chi sta cancellando la dicitura “romanzi dell’orrore” nel proprio catalogo o va nascondendo opere di terrore puro dietro copertine e titoli fuorvianti.
La notte degli zombie non è un capolavoro. E’ un horror onesto, tanto più tale quando finge di essere qualcos’altro. La prova che questo genere ha ancora molto da dire e obiettivi da raggiungere sulle sue stesse gambe, senza bisogno di stampelle sentimentali, storiche o giallistiche. Avvisiamo la stampa dunque, telefoniamo in piena notte agli editori?
Naaaa…. Fate conto che ha moruto un molisano, colpito da un albero nella foresta deserta.
About SelenePascarella
Selene Pascarella è nata a Taranto nel 1977. Si è laureata alla Sapienza di Roma 23 anni dopo, con un tesi dedicata a Mario Bava, Lucio Fulci e i maestri dello spaghetti horror dal titolo "Estetiche di morte nel cinema dell'orrore e del fantastico".
Giornalista per professione e per vocazione si occupa di cinema, tv, narrativa di genere e cronaca nera. Nel 2011 ha pubblicato, assieme a Danilo Arona e Giuliano Santoro, il saggio "L'alba degli zombie. Voci dall'apocalisse: il cinema di George Romero" (Gragoyle). Tra il 2012 e il 2013, Maya permettendo, ha curato il format 2.0 DiarioZ_Italia per Multiplayer.it.
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