La nuova sfida indie in forma di antologia genera un altro controverso capitolo, Abc’s of Death. 26 lettere dell’alfabeto, 26 autori diversi, 26 corti.
Ant Timpson e Tim League, sagaci produttori anglofoni hanno fornito a ciascun autore un budget di circa 5,000 dollari, da sfruttare in 6 mesi 6 settimane e 6 giorni come termine ultimo. Le iniziali dei titoli dei cortometraggi sono state assegnate arbitrariamente dagli stessi produttori a ciascun autore, il quale ha goduto della più ampia libertà espressiva tenendo come unico file rouge la morte, espressione ultima di ogni forma di terrore.
The ABCs of Death si sviluppa seguendo i canoni della raccolta antologica, formula mutuata dai ruggenti 80′ e quanto mai di moda dopo il successo di V/H/S, altro progetto simile e capace di dare linfa nuova al polveroso Cinema in POV di ultima generazione. L’omaggio (o saccheggio?) dagli Ottanta continua a sembrare una formula vincente e la recente riscoperta degli horror antologici non è che l’ultimo tassello di un ritorno al futuro che da una parte entusiasma mentre dall’altra solleva come sempre dubbi giganteschi sul futuro creativo e sull’originalità dei progetti. In ogni caso questa formula attualissima, che attuale in vero non è, pare particolarmente adatta all’espressione di produzioni indipendenti che, viceversa, sarebbero relegate ad una distribuzione limitata o inesistente e a una ghettizzazione (si fa per dire) di tipo virale, ovvero limitata al web e ai suoi canali informativi.
Strutturato un pò come i volumi scolastici per bambini The ABCs of Death è dominato da un’eterogeneità schizoide, quasi ebefrenica, in cui vale un pò tutto e all’interno della quale la ricerca di una qualsivoglia amalgama sensoriale o narrativa appare esercizio superfluo. Tutto e il contrario di tutto insomma,disomogenia spaziale e temporale dagli effetti spiazzanti. Dal torture più grezzo alla plastilina animata, dal cartoon al found footage, passando per lo sci-fi, il minimalismo, il thriller all’italiana, l’exploitation franco- britannico, il trash e il pulp orientale, il videoclip asettico e disordinato, il paradosso weird, il metacinema. Una moltitudine di forme espressive e stilistiche messe in scena da autori più o meno noti con esuberanza, coraggio ma anche con presunzione e ingenuità. 26 film, 26 teste, 26 risultati. Non poteva essere altrimenti. In ogni caso lo spirito retrò del nuovo horror indie ne esce rinfrancato dall’operazione voluta dalla Magnet Releasing, la stessa di V/H/S ,grazie ad un approccio nel complesso fresco e vitale, in cui le idee fanno i conti con i limiti di budget e ne escono paradossalmente galvanizzate.
Un altro aspetto interessante in un progetto del genere è il confronto con e fra le diverse scuole, qui rappresentate sia da affermati cineasti che da esordienti allo sbaraglio in una roulette impazzita dagli effetti imprevedibili. Alcuni big deludono, altri confermano anche in quest’occasione classe da vendere. Vale la pena provare ad analizzare brevemente ciascuno dei 26 segmenti al fine di tentare una valutazione globale più soddisfacente.
Si comincia con il filotto ispanico, quattro corti piuttosto deludenti.
A is for Apocalypse di Nacho Vigalondo è un incompiuto tentativo di esporre credibilmente un dramma familiare sullo sfondo della fine del mondo. Pretesto blando, tensione nulla, effetti carini ma mal sfruttati pienamente, finale melenso. Dall’autore spagnolo di Timecrimes (2007) e Extraterrestrial (2011) ci si aspettava qualcosina di più.
B is for Bigfoot del messicano Adrián García Bogliano è bruttino, scontato, senza sale. La favola nera dello yeti assassino a Città del Messico è poi di quanto più stupido una mente possa generare. Una giovane coppia vuole fare sesso ma è limitata dalla presenza della cuginetta di lui nell’abitazione. I due decidono di raccontare una fiaba nera per spaventare la bimba e farla coricare ma si ritroveranno vittime del mostro da loro stessi inventato.
C is for Cycle. Uno che ha diretto in passato film come Mandrill (2007)e Mirageman (2009) forse nemmeno dovrebbe avere tali opportunità nella vita. Capita però che il treno passi e tu non lo sappia prendere perchè sei terribilmente lento. Ernesto Díaz Espinoza, cileno trentacinquenne, fa ruotare intorno a un certo Matías Oviedo una sgangherata scenetta incentrata su di un poco comprensibile paradosso temporale. Inutile.
D is for Dogfight. Marcel Sarmiento, che qualcuno ricorderà per Deadgirl (2008), mostra un certo talento nel confezionare una specie di lunga clip sullo scontro fra uomo e natura. La lunga battaglia uomo vs cane vs uomo non ha certo un finale vibrante ma l’uso del ralenty sotto i ruvidi suoni dei Teargas & Plateglass ci sta che è una meraviglia.
E is for Exterminate. Angela Bettis è un attrice, per altro piuttosto brava, varrebbe la pena ricordarla per Ragazze Interrotte o per il remake di Carrie piuttosto che per una porcheria del genere. Come a dire, a ognuno il suo mestiere. Qui prova a descrivere una lotta fra un uomo e un ragno insistente. Effetti video imbarazzanti, accompagnamento sonoro fastidioso, sceneggiatura ridicola. Non si salva nulla.
F is for Fart. Noburo Iguchi è un pò come Vasco Rossi: o lo ami o lo odi, non ci sono palle che tengano. irriverente, esagerato, volgare, sporco, brutto e scemo. Eppure mi piace, anche quando fa escrementi visivi come questo, proprio perchè è lui, perchè il suo stile è inconfondibile, figlio dei Manga e degli Anime e di tutta l’imbarazzata e imbarazzevole sottocoltura extreme Nippon. Storia d’ amore saffico in salsa di scoreggia mentre il mondo volge al termine.
G is for Gravity. POV di un surfista che affoga. Forse insieme al corto di Ti West il peggiore di tutti. Cosa avesse in testa l’australiano Traucki ancora non si capisce, sicuro ha buttato a mare 5000 dollari in nome della sua ossessione oceanica che lo accompagna da sempre in carriera. Orribile.
H is for Hydro-Electric Diffusion Thomas Cappelen Malling, Norvegia, mette in scena un cartoon in live action che ricorda il Del Toro di Hellb0y. Divertente e scorrevole. Un ufficiale inglese con le sembianze di un bull-dog e una donna-volpe nella parte di una spogliarellista nazista si affrontano in piena Seconda Guerra Mondiale. Finale cruento e gustoso. Colorato e ben congegnato.
I is for Ingrown. Torture porn del messicano Jorge Michael Grau. O perlomeno questo voleva essere nelle intenzioni. In un lurido cesso si compie un efferato omicidio e la vittima filosofeggia sul senso della vita in forma di voce fuori campo. Potenzialmente una buona idea, sviluppata malino, che lascia un senso di pancia vuota dopo un pasto costoso. Peccato, il suo We are what we are, esordio di due anni fa, è un ottimo film. Le aspettative erano alte. Deluse.
J is for Jidai-geki pericolosa allegoria sul rito secolare del seppuku. rischiava di offendere, ne esce simpaticamente. Il maestro Yuday Yamaguchi gioca con le sue tradizioni alleggerendo con dosi massicce di autoironia la tematica del destino ineluttabile. Cifra autoriale in pillole..
K is for Klutz. Il danese Anders Morgenthaler ci parla attraverso un cartoon di una donna e della lotta per sopravvivere di uno stronzo appena cagato particolarmente tenace nel non voler farsi gettare nella vaschetta. Un corto di merda che parla di merda. Fra i peggiori. Tutti a scuola da Maccio Capatonda e da I Soliti Idioti.
L is for Libido. Timo Tjahjanto e Kimo Stamboel non sono nient’altro che i Mo Brothers, divenuti famosi dopo l’ultra (giustamente) celebrato Macabre. Qui Tjahianto agisce da solo e genera un perverso gioiellino di sette minuti, Torture estremo e coerente, capace di una architettura solida e potenzialmente estendibile al medio-lungo metraggio. Sembra una scena di Hostel girata e prestata al cinema asiatico e si sente una potenza, una nausea, tipica dei no limits del far east. Un pubblico mascherato (miliardari e concubine al seguito? Probabile..) scommette su due uomini legati a delle poltrone infernali intenti a masturbarsi: Chi viene prima vince e si salva la pelle, l’altro muore impalato. Il cadavere viene sgomberato e arriva un nuovo concorrente. Peccato che, se inizialmente a far drizzare gli attrezzi dei concorrenti ci pensavano sublimi visioni di donnine nude intente ad accarezzarsi parti intime, successivamente sul palco si presentino mutilati e pedofili in sequenza a rendere l’eccitazione assai complicata. Devastante.
M is for Miscarriage. Ti West è uno scostante ma capace di ottimi colpi. Qui rappresenta la grande America e poteva far migliore figura da porta bandiera. Come headliner dell’intero progetto se la cava malissimo con una claustrofobica sequenza di pochi frame che non dice nulla ma davvero nulla. Inqualificabile e imperdonabile atto di supponenza.
N is for Nuptials. Altra star, miglior risultato. Del thailandese Banjong Pisanthanakun (Shutter, Alone) sappiamo tutto o quasi e sappiamo soprattutto che è bravo. Qui mette il suo talento al servizio di una storia leggera ma ben sviluppata che ben si inserisce come sorbetto di metà scorpacciata. Un pappagallino molto loquace trasforma una proposta di matrimonio in un funerale assicurato.
O is for Orgasm Forzani e Hélène Cattet provano a volare molto alto e cadono piuttosto in basso. Trasposizione psichedelica del concetto di piacere sessuale femminile visto come atto algido antropologico.Visioni ricercate e sinuose, sonoro potente ed effetti da clip art non bastano a salvare un lavoro autoreferenziale e poco consistente. Il Bruno nazionale fallisce la prova medaglia per il nostro paese.
P is for Pressure. Simon Rumley è come sempre spietato e trascina lo spettatore fra sangue e sporcizia, lungo la miseria dell’animo. Autore raffinato ed esponente di spicco della new wave d’Albione, Rumley anche in questa occasione non delude. Storia di una puttana di mestiere che sogna di regalare una bicicletta alla figlia. I soldi non ci sono e ci scappa l’atto estremo. Pugno allo stomaco.
Q is for Quack Adam Wingard e Simon Barrett sono regista e sceneggiatore del corto. Si confrontano su come sviluppare una specie di snuff con protagonista una papera e finiscono per farsi fuori a vicenda. Pillola metacinematografica carina ma nulla più.
R is for Removed. Srdjan Spasojevic dopo A serbian film sembra un campione in cerca di se stesso, come perso lungo i passati trionfi ma incapace di ritrovarsi in una chiave nuova. Il ragazzo è talentuoso, lo sappiamo, ma anche stavolta è inconcludente, ridondante, monco. Anche qui la tematica del media perverso viene ripresa e riprodotta come architrave di una spirale di estremizzazione ansiogena. Un uomo viene sottoposto a degli esperimenti in cui la sua pelle diviene pellicola fotografica fino all’estremo atto di ribellione. Fotografia e montaggio notevoli, cromaticamente acidissimo lungo campi rossi e blu, letale e minuzioso quanto basta come il taglio di un bisturi è però l’ennesima prova a metà del talento serbo. Più un lungo breve che un corto lungo, forse necessitava maggiore spazio, in questa forma è assolutamente sacrificato e incompiuto.
S is for Speed. L’inglese jake West ci presenta la morte ( e la tossicodipendenza in forma di metafora) inseguire una donna nella sua fuga disperata. Quasi un lavoro di Rodriguez per scenario e montaggio. Non male.
T is for Toilet. Vincitore del concorso interno proposto dai produttori, è un lavoro in claymation di straordianaria bellezza. Plastilina animata al servizio dell’horror. Cinico, brillante, violentissimo. Uno dei lavori migliori fra i ventisei. la paura di un bambino per il suo bagno come non l’avete mai vista.
About stefano paiuzza
Appassionato d'horror da tempi recenti ma affascinato dalla paura da sempre. Ama in particolar modo il cinema europeo ed extra hollywoodiano in genere. Sogna una carriera come critico cinematografico e nel frattempo si diletta tra letture specifiche e visioni trasversali. Lavora a stretto contatto con la follia o forse è la follia a lavorare su di lui. Se fosse un regista sarebbe Winding Refn, uno scrittore Philip Roth, un animale una tartaruga. Ha pronto uno script per un corto ma non lo ha mai fatto leggere. Citazione preferita: "La dittatura è dentro di te" Manuel Agnelli.
U is for Unearthed. Ben Wheatley, altro inglese di razza, regala un POV vampiresco di ottima fattura. La prospettiva antagonista è una scelta geniale degna del miglior Carpenter.
V is for Vagitus Corto canadese ambientato in una Vancouver ipertecnologica nel 2035. una poliziotta si ribella alla politica sterminatrice di pensatori telecinetici ma dovrà vedersela con un androide spietato e un dirigente poliziesco ligio e crudele. Storia sul senso della vita e della maternità, costoso ma nel complesso efficace.
W is for WTF! Jon Schnepp è un promettente director e designatore specialista in horror animation. Oltre alle serie Metalocalypse e Venture Bros, lo si ricorda per il folgorante corto d’esordio The Removers. Evidentemente il giovane americano con il corto ci da dentro di brutto e qui si mette a giocare fra surrealismo e parodia distruggendo logiche e catene concettuali classiche. Trichechi sminuzzati, inserti animati, zombie clowneschi sullo sfondo di una metacinematografica crisi di idee. Felliniano e azzeccato.
X is for XXL Xavier Gens è il degno rappresentante della nouvelle vague d’oltralpe in questa piccola rassegna planetaria. Come sempre o quasi, Gens gioca la carta del dolore, del sangue disperato in cerca di una fuga dai tormenti della mente. Ne esce un corto cattivo, crudo, godibile nella sua immediatezza, ben rappresentato e ben recitato. Storia di un’obesa stanca di subire angherie e prese in giro la quale decide di mutilare direttamente le parti in eccesso.
Y is for Youngbuck Dopo averci regalato prima il corto poi il lungometraggio di quella piccola grande perla chiamata Hobo With a Shot Gun, Jason Eisener torna al corto in bello stile come già fatto in V/H/S. Accompagnato dal pezzo Vengeance dei Power Glove, perla da riscoprire sul tubo, Eisener ci narra una storia di vendetta in slow motion elegante, quasi vintage, capace di guidare lo spettatore in un fluido discendere nell’ ade della violenza con dolce smarrimento. Notevole. Scelta della fotografia da encomio.
Z Is for Zetsumetsu Il maestro Yoshihiro Nishimura ci riporta alle atmosfere cyber punk dei suoi capolavori Tokio Gore Police e Machine Girl senza dimenticare le perverse atmosfere di Suicide Club. Autore dalla cifra stilistica inconfondibile, chiude l’antologia col botto, regalandoci una porno- grottesca orgia di immagini estreme e impazzite. Metafora anticapitalista da rivedere senza fretta.
The Abc’s of Death è per concludere opera discontinua in cui si alternano ottimi piccoli film a progetti francamente da cassare impietosamente. Resta rimarchevole lo sforzo di Magnet Releasing ( coadiuvata da Drafthouse Films e Timpson Films Productions) nel portare al medio grande pubblico il lavoro di autori di classe, autorevolezza e riconoscimento diverso, tutti nello stesso campo di gioco con le medesime regole, senza favoritismi particolari e con una coerenza artistica notevole. Ne emergono ovviamente squilibri e risultati alterni ma anche un retrogusto di fair play e di libertaria espressione di potenziali altrimenti destinati a eterna gavetta.
The ABCs of Death è operazione valida e coraggiosa, a tratti dispersiva ma che merita un giudizio positivo per come mette in gioco l’autorialità al servizio della passione, mettendo in sfida (forse) inconsapevole cineasti e scuole, permettendo al pubblico un giudizio che trascenda dai paraculi produttivi e di nomea. Qui tutti potevano essere più o meno bravi, a pari condizioni nella stessa piccola grande sfida e lo spettatore può giocare a giudice onnipotente o critico dell’ultim’ora senza imbarazzo. Abc’s of Death forse non è il giusto terreno ove misurare lo stato di salute complessivo del Cinema horror mondiale ma è indubbiamente un film che ribilancia potenziali, qualità, sovrastime in una portata non definitiva ne inappellabile ma indubbiamente rilevante.
The Abc's of Death - VOTO: 3/5
Anno: 2012 - Nazione: UK - Durata: 123 min.Regia di: aa.vv
Scritto da: aa.vv
Cast: - - - -
Uscita in Italia: aprile 2013 - Disponibile in DVD: