E’ evidente come nelle intenzioni dei suoi creatori CvsZ sia stato creato per accodarsi al crescente trend zombesco della filmografia mondiale piuttosto che per approfondire quanto fatto dai propri presunti modelli.
Durante i lavori di demolizione di una vasta area residenziale situata nell’East End londinese, un gruppo di operai rinviene casualmente un enorme cimitero sotterraneo, millenario custode di una maledizione finalmente libera di scatenarsi.
Nell’attesa che il governo prenda i provvedimenti del caso militarizzando l’area, toccherà a un manipolo di criminali da strapazzo affrontare l’invasione di non morti: i nostri sono freschi di una rapina in banca il cui bottino dovrebbe servire a coprire i debiti dell’ospizio gestito dal nonno, condannato a scomparire dallo grosso piano di speculazione urbana responsabile dell’infezione. A fianco dei quattro, gli stessi ospiti della struttura, tanto agée quanto determinati a vendere cara la pelle.
Era forse inevitabile, nonostante i quasi due lustri passati dal momenti in cui i due modelli presi in esame fecero furore, trattando una horror comedy a base di zombie ambientata nella Londra proletaria non cadere nella trappola di una tagline capace di mettere assieme Shaun of the Dead e Lock & Stock, secondo una strategia promozionale tanto telefonata, quanto ambiziosa, quanto pericolosa. In primis perché la pellicola di Edgar Wright ha rappresentato il momento più alto di un sottogenere – la british horror comedy – la cui base si è presto saturata di pellicole noiose e tutte uguali, sorte come funghi a raccogliere le briciole del successo di cotanto capostipite. Poi perché, se dieci anni sono forse un po’ troppi per accodarsi a un preciso movimento filmico nei fatti morto e sepolto, sono forse troppo pochi per accreditarsi come credibili protagonisti di un suo eventuale revival. Discorso analogo poi si potrebbe fare per le pulpeggianti strutture ad incastro a là Guy Ritchie, molto efficaci per un paio di film e presto scadute nel manierismo più furbetto. Come poi spesso accade, il tanto ricercato effetto promozionale rischia di ritorcsi contro i suoi ideatori, non solo perché probabilmente si è sparato troppo alto, ma anche e sopratutto perché si è sbagliata a priori la scelta del bersaglio.
E’ infatti evidente, ben presto se non immediatamente, come nelle intenzioni del suo regista e co-sceneggiatore Matthias Hoene – la cui precedente e pur ridotta produzione è intrisa di londonism – Cockneys VS Zombies sia stato ideato e prodotto per cavalcare molto prosaicamente – e comunque già in seconda battuta – il crescente trend zombesco della filmografia mondiale più che per coltivare le spore dei succitati, celebri modelli.
Zombie comedy che di british ha giusto l’ambientazione e l’accento cockney dei suoi protagonisti e non certo la matrice comica, costruita intorno alla semplicissima e semplicistica ripetizione delle più classiche dinamiche d’assedio, in fase di scrittura si è evidentemente scelto di sacrificare una certa profondità e ricercatezza nella sceneggiatura e scegliere la strada dell’ipercaratterizzazione di alcuni dei suoi protagonisti: anche in questo caso, tutto risulta piuttosto convenzionale e stereotipato, così come si capisce sin da subito che gran parte dell’onore interpretativo e comico peserà sulle spalle del sempre grande Alan Ford – eccolo l’unico vero trait d’union con Guy Ritchie: Ford è infatti il boss londinese con la passione per le porcilaie Brick Top in The Snatch e voce narrante in Lock & Stock -, Fumantino e irriducibile, il nonno Ray di Ford è senza dubbio l’elemento meglio riuscito della compagnia, certo più per caratteristiche intrinseche allo stesso Ford che per costruzione, mentre il resto dei co-protagonisti non brilla certo per personalità, nonostante i nostri si siano evidentemente sforzati di creare una fauna urbana londinese peculiare ed eterogenea Non che, a conti fatti, in Cockneys VS Zombies non si rida mai: una manciata di scene centrano il bersaglio – la fuga slow motion in deambulatore dell’anziano Hamish su tutte – strappando sorrisi più o meno convinti, e molto difficilmente vi capiterà di non arrivare fino in fondo, ma quello che davvero manca alla pellicola è una personalità propria: quella personalità che non può delinearsi solo spingendo l’acceleratore sulle peculiarità geografiche dei suoi protagonisti e che il co-sceneggiatore James Moran era invece riuscito a costruire bene nel più che godibile Severance (2006). Il risultato è quello di condannare Cockney VS Zombies, in un momento di iper-saturazione del genere zombesco, alla terza, quarta fila delle pellicole del settore, priva com’è di carattere e spunti propri. Destinata a essere vista e presto dimenticata.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.
Posted On
giu 17, 2013Posted By
Eddie_ShenkerEra dai tempi di Shaun of the dead che non ridevo così con gli zombie