Romeo deve salvare la sua donna e il suo bambino. Il chirurgo spirituale che li ha rapiti è capo di una setta sanguinaria senza scrupoli. Finalmente ecco a voi il “libro maledetto” di Paolo Di Orazio
“Il più grande regista italiano del terrore di ogni tempo”. Così c’è scritto sulla copertina di questo libro, ma non si tratta di un errore, è uno scherzo voluto dall’autore, un piccolo ammiccamento malizioso a tutti i proclama esagerati che campeggiano nelle copertine dei libri di tanti suoi illustri colleghi dell’horror letterario. Di Orazio del resto avrebbe anche il diritto di strillare a tutti chi è, cosa è riuscito a essere in tutti questi anni passati a scrivere, disegnare, suonare. Artista poliedrico di indiscutibile talento, capostipite dello splatterpunk (o splatternoir) italiano, Paolo è una persona disponibile e modesta che dimostra con i fatti il proprio valore. Primi delitti è stato l’exploit ridondante nel mondo della narrativa di genere, una stupenda antologia di racconti che gli valse una denuncia, trasformata sapientemente in una efficace campagna promozionale. Primi delitti però è tutto ciò che di solito si ricorda di lui, come se non avesse mai scritto altro. Invece, per quanto ormai introvabili, ci sono fior di romanzi come Il dipinto ucciso o raccolte successive a quella dell’esordio, come Madre Mostro o il più recente Che hanno da strillare i maiali?, che dimostrano quanto la fama di questo scrittore non possa essere legata esclusivamente a un libro e a un’istanza parlamentare per istigazione al crimine. Chiruphènia, il nuovo romanzo, non è solo l’ennesimo slancio creativo di uno scrittore che continua dopo oltre vent’anni a dimostrare, nella prosa ispirata, la visionarietà scatenata e la spregiudicatezza pura, figlia dell’autentica necessità creativa, quanto scrittore vero, lui, lo sia sul serio. Chirupènia è un episodio però molto particolare, difficile da assimilare e passare agli archivisti del macabro. È il libro maledetto di Paolo Di Orazio. Ogni scrittore ne ha uno e questo è il suo.
Scritto originariamente nel 1996, non cestinato né pubblicato ma depositato in un cassetto, la creatura ha continuato a crescere fino a grondare fuori dal legno del mobile, tenace come un tumore artistico, pieno di malattia e poesia insieme. Un libro nero, anche se la copertina mostra una ragazza in camice bianco che si sta squartando l’addome con un paio di forbici, nero è il colore che viene in mente ogni volta che ci si immerge dentro. Chiruphènia è la scatola nera che ha solcato i cieli nel viaggio artistico di Paolo Di Orazio fino a oggi. Avremmo dovuto imbatterci in esso una volta morto il suo autore. Avrebbe forse dovuto lasciare che il manoscritto di carne continuasse a nutrirsi dei vermi che scellerati erano strisciati dal nulla credendo di pasteggiare e che sono finiti per diventare pasto essi stessi. Scatola nera perché dentro questo volume c’è l’incubo più triste, cattivo e oscuro che la mente di Di Orazio potesse concepire. Non ci sono spiragli. Le uniche luci che si possono avvistare sono quelle della lama che sta per tagliare l’ennesimo corpo. Il lettore è come un cieco che viene preso per mano e fatto avanzare in una morgue che trabocca di cadaveri decomposti. Il cielo ha paura, sente freddo e si chiede chi sia davvero il suo accompagnatore così laconico, evasivo. La prosa di Paolo è severa, asciutta, avara, al punto di far pensare più che a Clive Barker, citato da Antonio Tentori nel retro di copertina, a uno dei maestri dello scrittore di Liverpool, Ramsey Campbell e forse anche l’altro genio americano del non detto orrorifico, Dennis Etchison, ma intendiamoci, qui si tratta di Di Orazio che ha una voce sua, profonda, che puzza come il fiato sepolto nel fondo di un pozzo melmoso. Leggere Chirupènia è spaventoso perché si prova un senso di grande vulnerabilità. Sembra di stare in una sala operatoria completamente nudi, circondati da medici bardati e con un bisturi in mano. In certi momenti la prosa singhiozza, è ermetica, thrash metal, mentre in altri si prolunga in camminate di sentimentale crudezza dove l’amore più toccante sgretola in un piglio scientifico da breviario di anatomia. Si passa spesso da un romanticismo carveriano, al trattatello illuministico di biologia sulla morte, fino allo sproloquio sinistro e possente dell’antico testamento biblico.
Chiruphènia è un libro durissimo, odioso, faticoso e, come molta della grande letteratura, fa sudare, ferisce al cervello oltre che l’epidermide; è abrasivo, come se la voce di Di Orazio ci venisse sussurrata a pelo delle nostre ferite più nascoste e bisogna subire anche qualche nuovo graffio se si vuole arrivare al cuore duro del verme, sentire quello scatto in fondo alla mente, la crescita, l’arricchimento definitivo che aspetta solo i più tenaci. Il chirurgo spiriturale, Don Blazaar infesta tutto il romanzo, è lo spirito che possiede il testo e che spinge il lettore sempre più giù nella carne fredda, dolce. Nel fine ultimo del chirurgo c’è la maestosità barocca di Lovecraft, altro gigante associato a questo libro, in modo inspiegabile, sempre da Tentori. Per il resto viene da pensare più Gesualdo Bufalino di Diceria dell’untore, proprio per la prosa così viva, compressa di genio e di malizia. Il finale epico che non sveliamo è una splendida metafora sull’architettura del dolore che è anche l’architettura della narrativa stessa e che infine deflagra nel corpo di un solo uomo: Don Blazaar/Di Orazio. Il chirurgo e lo scrittore hanno fin troppe cose da spartire. Blazaar/Di Orazio si introducono nei corpi dei personaggi, li guidano, li aiutano a ottenere ciò che loro vogliono e alla fine se ne disfano, li smontano e li riciclano in assi e basamenti di un tempio allucinatorio che è la visione alla base di ogni sforzo narrativo.
Chirupènia è un libro speciale. Si può godere allo stesso modo, sia leggendolo secondo l’ordine stabilito dal suo autore, che percorrendolo al contrario. Funziona comunque proprio perché sguazza alla perfezione nel caos emoglobinico apparente, tenendo sempre e comunque ben salda la mano del lettore, cieco, nella morgue fino in fondo al cammino della disperazione assoluta che poi è dove comincia la vera speranza. La follia.
About Ceccamea
Nato a Vetralla (VT) l'8 dicembre del 1978. Scrittore, strimpellatore di chitarra, ex-fumatore incallito. Sposato, con figli. Una di tre anni. L'altra in arrivo per il nuovo anno. Maya permettendo.