Non possiamo che consigliarvi questo Little deaths, una vera sorpresa di fine anno.
Capita di raro, ma per fortuna capita, che, senza conoscere i titoli dei film, ci si imbatta in un cestone da grande magazzino, quello con i dvd dai titoli più assurdi, Zombi contro Dracula, Le mutandine rosse della morte, e tra mille ciofeche capiti il capolavoro. E’ il caso di Little deaths, traduzione inglese del termine francese petite mort, ovvero orgasmo, opera antologica inglese diretta da tre promettenti registi indipendenti, Andrew Parkinson, Sean Hogan e Simon Rumley. Il tema è il connubio morte/sesso, ma anche la difficoltà dei rapporti umani soprattutto quello di coppia. Dimentichiamoci i divertissement ad episodi come Creepshow, qui il terreno da gioco è diverso, l’impianto, pur se colorato di grottesco o soprannaturale, è di assoluto realismo. Siamo in un cinema che, come nei gloriosi anni 70, l’epoca della feroce critica al consumismo dello Zombi di Romero, abbraccia il fantastico per rappresentare le nostre paure o debolezze, per fare un ritratto spietato della nostra società arrivando a smuovere le lenzuola dove nascondiamo i nostri peccati notturni. Il primo segmento, House and Home, il più debole e banalotto dei tre, diretto da Sean Hogan, già regista di un non memorabile Lie Still del 2008, racconta dei piccoli segreti di una famiglia borghese che, dietro un’insospettabile facciata di impegno sociale per aiutare i più bisognosi, nasconde un irrefrenabile impulso al sadismo e agli stupri. Classico cortometraggio con ribaltone shock finale, viene salvato da una regia elegante e da una fotografia, lo stesso direttore per tutti e tre i segmenti, calda soprattutto nell’uso dei colori accesi come il rosso. E’ anche il frammento più sanguinoso con sbudellamenti in bella vista, ma anche quello più smaccatamente (e banalmente) politico con una storia che cerca di tracciare una critica verso le classi sociali più agevolate che cannibalizzano i ceti meno agevolati, sfruttandoli o usandoli come oggetti da mettere alla berlina.
L’idea riprende un po’ il concept romeriano di creare una saga dove rappresentare i morti viventi come barboni ai margini di una società ricca e fiorente. Efficaci gli effetti speciali che nel design finale dei mostri citano il (troppo poco considerato) cult di Gary Sherman, Non prendete quel metrò. Meglio a livello narrativo, ma peggio in quello registico, si va con Mutant Tool di Andrew Parkinson, già autore di due notevoli film horror a bassissimo budget, I zombie e Dead creatures. La storia è quella di una nuova droga, tanto potente da aprire le porte della percezione, il cosidetto terzo occhio, ottenuta dallo sperma di un telepate dotato di un pene abnorme. Se la trama è assurda, lo stesso non si può dire dell’atmosfera, impreziosita dalla fotografia questa volta glaciale, che ricorda non poco la malsanità di alcune opere d’esordio cronenberghiane come Rabbit o Il demone sotto la pelle. A convincere meno è la regia di Parkinson, svogliata e troppo compiaciuta degli stilemi da film amatoriale con ambientazioni spoglie o attori ai limiti dell’accettabile. E’ questo il segmento più massacrato dalla produzione, che ha chiesto tagli alle varie opere per smorzare i toni horror: qui siamo purtroppo sulla soglia dell’incomprensibile con un finale evidentemente accorciato e raccordi mancanti ai fini dell’interpretazione della storia.
Il terzo segmento è il migliore con una regia strepitosa, un montaggio sapiente e una storia tanto feroce quanto romanticamente malata. L’idea venne al regista Simon Rumley, già artefice dei notevoli e toccanti The Living and the Dead e Red White & Blue, quando vide la sua fidanzata dell’epoca urlare terrorizzata per via di un ragno. L’autore meditò sui meccanismi simili che muovono la paura e l’attrazione, e scrisse una storia di un rapporto di coppia finito, tra due persone che durante il giorno si evitano, ma la sera creano un gioco intimo dove lui, indossato una maschera animale, si fa sodomizzare da lei. La paura irrazionale e isterica che la donna prova per i cani viene esorcizzata dal rapporto di dominio sessuale che ha con il suo patner. Quando però si intromette un terzo elemento fra loro due, l’uomo/cane capirà di amarla così tanto da doversi vendicare… Si può dire che questo Bitch (puttana, ma anche cagna) si mangi a colazione i precedenti episodi, grazie, ma non solo, alla bellissima colonna sonora di Richard Chester che nel finale tocca punte estreme di lirismo. In conclusione non possiamo che consigliarvi questo Little deaths, una vera sorpresa di fine anno, un film capace di disgsustare, fare riflettere, appassionare, sicuramente un’opera che non lascia indifferenti, materia rara in un cinema come quello indipendente abbonato a storie senza interesse o a prodottini usa e getta.
About Andrea Lanza
Si fanno molte ipotesi sulla sua genesi, tutte comunque deliranti. Quel che è certo è che ama l’horror e vive di horror, anche se molte volte ad affascinarlo sono le produzioni più becere. “Esteta del miserabile cinematografico” si autodefinisce, ma la realtà è che è sensibile a tette e sangue.