Uno dei capolavori horror per antonomasia, simbolo di un’epoca, icona dell’intero genere. Un film per il quale esiste un solo aggettivo: immortale.
Capolavoro. Classico. Cult. Tre C,come Chainsaw, tre tra i tanti aggettivi che sono stai usati, negli anni, per parlare di questo film, pellicola low budget targata 1974, girata nell’arco di un mese dall’allora trentenne Tobe Hooper, regista texano alle prese col suo secondo lungometraggio dopo “Eggshells”, del 1969.
Il film iconizza l’assunto di come nemmeno il più alto dei budget possa essere minimamente in grado di sostituire delle grandi idee; negli anni ’70, era ancora possibile dire qualcosa che non fosse già stato detto, mostrare qualcosa di non ancora mostrato, inventare, stupire, scioccare. Gli USA portavano la ferita sanguinante della guerra del Vietnam e dei suoi reduci, la “sporca guerra” per antonomasia che ferì la coscienza collettiva di un’intera nazione; quasi impossibile dunque slegare il fermento horror anni ’70, che sfornò alcuni tra i maggiori capolavori del genere, da questo trauma collettivo. Ma dietro tutto ciò, non c’era solo il Vietnam: con gli anni, ci siamo progressivamente assuefatti a ogni tipo di orrore reale, al punto da diventarne quasi immuni. Per questo, oggi come oggi, è diventato così difficile realizzare un horror che spaventi davvero, che torturi gli animi, che entri nell’immaginario collettivo come fece il capolavoro di Hooper.
Il film tocca molteplici, delicatissime corde: dal furto di cadaveri al cannibalismo, fino alla rappresentazione di un “american family” completamente folle, malsana, deviata. Il mattatoio che fornisce lavoro alla gente della zona diventa, nella famiglia di Leatherface, mattatoio di esseri umani, senza differenze morali, senza soluzione di continuità.
Un plot semplice, un percorso nella follia che inizia col viaggio di cinque ragazzi verso la tomba del nonno in terra texana, in seguito alla notizia del trafugamento di cadaveri dal cimitero locale. Un viaggio senza gioia e spensieratezza, col disabile Franklin, fratello di Sally, la protagonista (Marilyn Burns), anch’egli come lo stesso Leatherface outsider, emarginato, diverso, menomato nel fisico quanto Faccia di Cuoio lo è nella mente.
Il film è indimenticabile fin dall’inizio, dalla prima sequenza, che mostra un cadavere in decomposizione posato ad arte su una tomba, e in sottofondo il notiziario radio che narra il macabro ritrovamento. E ancor prima, nei veloci snapshots di dettagli di corpi morti marcescenti. Lo stile di Hooper si fa chiaro e personale fin da subito, nell’inquadrare dettagli apparentemente insignificanti che si caricano di senso nel corso della narrazione, nelle inquadrature ravvicinate che gradualmente si allargano, a mostrare una visione d’insieme, l’orrore che sta intorno.
Il film viene presentato come una storia vera e come ormai tutti sanno non lo è: ispirato alla vicenda del serial killer Ed Gein, il “macellaio di Plainfield”, vive di vita propria, frutto di una finzione rappresentata con estremo realismo. Hooper e il direttore artistico Robert A.Burns trassero spunti dalla storia di Gein da alcuni elementi tra cui il macabro rito di creare arredi con i resti dei corpi delle vittime (come dimenticare il paralume fatto di un volto umano che adorna la tavola della folle famiglia? O il divano composto da scheletri umani?) e di indossare la pelle di queste ultime. Leatherface: faccia di cuoio ma tradotto letteralmente faccia di pelle, non leather quindi bensì skin, pelle umana. La grottesca maschera del personaggio è un volto umano, appiccicato sul volto mai mostrato di questo gigante ritardato che provoca un misto di pena e terrore.
Il nonno, l’autostoppista, il “cuoco”, nessuno dei componenti della famiglia ha un nome, sono spersonalizzati nella loro follia, a lui è riservato l’unico appellativo, un soprannome bizzarro e canzonatorio.
La scena della cena, con Sally legata alla sedia, l’intera famiglia a farle il verso mentre urla disperata, scena girata in modo progressivamente più veloce e delirante, fatta di primi piani, inquadrature ravvicinatissime dei suoi occhi terrorizzati, in un delirio visivo e sonoro che tocca la perfezione e che è stato successivamente citato infinite volte.
Il geniale score musicale, a opera dello stesso Hooper in collaborazione con Wayne Bell, è fatto di suoni metallici, che accrescono l’angoscia e si fondono con i rumori d’ambiente: i versi animaleschi di Leatherface, l’incessante brusio del generatore elettrico, il verso della gallina in gabbia e infine il suono protagonista, il più macabro e ossessivo, quel rumore di motosega che penetra nel cervello dello spettatore e nel suo immaginario, per non abbandonarlo più.
La sequenza finale, con Sally che riesce a fuggire su un furgone, coperta di sangue (in parte vero, poiché l’attrice si ferì sul serio durante le scene di fuga), in un delirio di urla, pianto e risa e un Leatherface ferito ad una gamba, col sole che sorge nell’alba texana che rappresenta la fine dell’incubo. Leatherface che gira su se stesso con in mano la sua motosega, in una scena per la quale non ci sono aggettivi, dolente, allucinata, perfetta.
Un film che è diventato icona di un genere, simbolo di un epoca, gioiello malato di uno scrigno cinematografico che purtroppo pare essersi serrato per sempre. Tuttavia, non senza lasciarci un segno indelebile: ogni volta che sentiamo un rumore di motosega, il nostro primo pensiero è una maschera tragica fatta di pelle umana.
The Texas Chainsaw Massacre Theatrical Trailer
httpv://youtu.be/BRA4wAl7Jkc
About Chiara Pani
Conosciuta anche come Araknex, tesse inesorabile la sua tela, nutrendosi maniacalmente di horror,musica goth e industrial e saggi di criminologia. Odia la luce del sole e si mormora che possa neutralizzarla, ma l’ interessata smentisce, forse per non rendere noto il suo unico punto debole. L’ horror è per lei territorio ideale, culla nella quale si rifugia, in fuga da un orripilante mondo reale. Degna rappresentante della specie Vedova Nera, è però fervente animalista, unico tratto che la rende (quasi) umana. Avvicinatevi a vostro rischio.
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