Lo slasher è sempre stato un genere amato dal pubblico, soprattutto quello giovane, relativamente semplice da realizzare e dai grandi incassi rispetto al budget miserrimo molte volte stanziato inizialmente.
Film a suo modo atipico, nel filone degli slasher movies, questo primo capitolo della lunga saga di Venerdì 13, firmato da Sean S. Cunningham, già produttore del cult “L’Ultima Casa a Sinistra” (1972), di Wes Craven. Atipico, poiché segna la nascita di un “nuovo mostro”, senza mai mostrarlo. L’icona Jason Voorhees, infatti, si manifesterà, così come noi la conosciamo, monolitica nella sua maschera da hockey, solo dal terzo film, il sequel “Venerdì 13: Weekend di Terrore” (1982), per la regia di Steve Miner (qui nelle vesti di produttore associato) .
L’atto secondo di Venerdì 13 sancisce il passaggio di consegne da mamma Pamela al figliol prodigo Jason. Le psicosi della famiglia Voorhees continuano a funestare Camp Crystal Lake e dintorni, ora per mano dell’imponente e ritardato Jason annegato anni addietro nel lago causa negligenza dei sorveglianti.
Dopo l’accusa di essere soltanto “una brutta copia del Michael Myers carpenteriano”, Jason Voorhees trova, definitivamente, la sua vera identità. Il protagonista della saga di Venerdì 13, infatti, era un omaccione deforme e ripugnante, uno scimmione rabbioso, caratterizzato “soltanto” da una camminata goffa tipica dei morti viventi. Almeno fino a questo momento. Steve Miner, nuovamente in cabina di regia, dirigendo Venerdì 13: Weekend di terrore, infatti, trova il giusto escamotage per regalare al villain il suo agognato emblema, il suo tratto distintivo, lo stendardo dell’intera saga.
Venerdì 13, capitolo finale uscì nel 1984, due anni dopo Venerdì 13, week end di terrore, e naturalmente non fu davvero il capitolo finale. L’intento di offrire una vera conclusione si avverte, e all’inizio della pellicola si trova anche un grazioso riassuntino delle puntate precedenti che sembra mettere le basi per la quadratura definitiva del cerchio;ma le contingenze (e in primis, più che altro, il mostruoso successo al botteghino che portò nelle tasche della produzione più di 30 milioni di dollari) spinsero la fortunata nave in direzione del proseguimento della saga, e così il “capitolo finale”, a conti fatti, è collocato nemmeno a metà della produzione complessiva dedicata al persecutore di Crystal Lake.
Il sesto film della serie che segue le traccie insanguinate lasciate da Jason Voorhees, risulta nel mio immaginario indissolubilmente legato all’album “Constrictor” di Alice Cooper, che rappresenta il ritorno sulle scene del teatrale artista di Detroit, dopo il suo ritiro nel 1983, dopo il mediocre album “Dada”.
Jason è momentaneamente neutralizzato, lasciato a galleggiare pigramente sul fondo del Crystal Lake, incatenato a un enorme masso nell’epilogo di una delle sue precedenti scorribande.
Un gruppo di studenti festeggia il diploma partendo alla volta di New York su un assai improbabile peschereccio (spacciato goffamente per nave da crociera). Nessuno di loro si accorge però che, come le cozze alla chiglia di una nave, il redivivo Jason Voorhees, emergendo dalle acque e afferrando una delle funi dell’imbarcazione, è salito nottetempo a bordo e si è unito alla gioviale compagnia al fine di dare seguito alla solita, prevedibile mattanza.
“L’ultimo Venerdì” per modo di dire. Nei primi anni novanta Sean S. Cunningham tentò di instillare nuova linfa in una serie che non se la passava bene dopo l’insuccesso dell’ottava capitolo di Rob Hedden.