Category: Zombi

I risorti  assaltano la casa del Signore. Dalla Danimarca un irriverente zombie gore feast.

È assioma oramai provato che il filone zombie stia attraversando negli ultimi  anni un invidiabile stato di grazia. Dopo la parziale carenza di produzioni interessanti tra la fine degli anni novanta e l’inizio dei duemila, si ha una netta inversione di tendenza capace di riportare questo amatissimo sottogenere agli antichi fasti.

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L’alba dei morti viventi di Zack Snyder è un cult che si confronta con il capolavoro di Romero senza la pretesa di superarlo, ma anzi lo attualizza, lo cannibalizza come i suoi stessi zombi, facendolo diventare materiale diverso dal prototipo e comunque un film sempre bellissimo.

Il miracolo poteva ripetersi con Day of the dead di Steve Miner, ma così non è stato. I sentori della bufala c’erano già tutti: problemi di produzione, ritardi con l’uscita, l’idea di farlo morire persino nel limbo dei film finiti e mai distribuiti e, dulcis in fundo, James Dudelson tra i produttori. Se non conoscete questo losco figuro che gira di solito in coppia con un’altra regista-produttrice, Ana Clavel, segnate subito il suo nome nel libro nero dei vostri incubi cinematografici più terribili.

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Prison of the dead è un film sicuramente da evitare anche se non è proprio uno dei peggiori film del suo autore. Ora nel leggere i credits il popolo insorgerà verso il povero recensore reo di una possibile gaffe: la regista è l’oriunda Victoria Sloan, una signora nessuno all’apparenza.

Ma se il nome vi intriga e già favoleggiate una playmate in bikini dalla labbra calde e le tettone generose vi devo deludere: Victoria Sloan è un uomo e mica un uomo qualsiasi: il regista più gay del secolo, David Decoteau. Se sapete di chi sto parlando i brividi di raccapriccio vi innonderanno la schiena: Decoteau è il regista più sciatto del panorama horror, uno che delle inquadrature se ne frega, che posiziona la macchina da presa come cazzo gli pare, l’importante per lui è filmare bei ragazzoni il più svestiti possibili.

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Bloodline è uno dei pochi piaceri della vita che, insieme al calcio, difficilmente dividerete con la ragazza aristocratica che amate.

La giovane giornalista freelance Sara, insieme all’operatore Marco, arriva sul set dell’ultimo film di Klaus Kinki, re del porno sperimentale, per girare un backstage da mandare in onda come ricatto per non essere licenziati. Ben presto, Sara si rende conto che si tratta dello stesso luogo in cui, da bambina, è stata costretta ad assistere all’uccisione della sua sorellina per mano di un pericolosissimo serial killer chiamato il Chirurgo.

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Parlare di mucca pazza fa venire in mente, di primo acchito, le allarmanti notizie che qualche tempo fa venivano pubblicate sui giornali di tutto il mondo, relativa all’encefalite spongiforme che affliggeva i ruminanti e che poteva essere trasmessa all’uomo.

Questa deve essere stata la scintilla ispiratrice per Conor McMahon per creare questo piccolo gioiello low budget che fa entrare di diritto l’Irlanda in quel piccolo club che segue le orme, per le proprie pellicole horror, lasciate da George Romero e i suoi zombie. E’ il classico film indipendente che se avesse una distribuzione adeguata potrebbe fare accorrere nelle sale torme di horror-fans salivanti.
McMahon mescola con attenzione scene gore e scene in cui fa la comparsa un humour macabro, mai fine a se stesso.

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Una Londra spettrale fa da sfondo alla rilettura del mito degli zombie da parte del ragazzaccio Danny Boyle.

In un momento storico in cui il cinema horror era intrappolato tra le deriva apocalittica di fine/inizio millennio e un orizzonte che si stava facendo oscuro in preparazione dell’apparizione dei nuovi vampiri meyeriani, Danny Boyle, regista rivelazione di Trainspotting, ebbe il coraggio di rispolverare dei personaggi che da un po’ di tempo erano stato dimenticati: gli zombie. Certo, la rilettura di Boyle nulla ha a che vedere con l’origine dei morti viventi romeriani, ma ebbe il merito (insieme a Resident Evil uscito lo stesso anno) di rinverdire i fasti di un tipo di cinema che ancora adesso non ha concluso la sua rinascita.

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In epoca di cowboy contro alieni, potevamo dimenticarci di un cult della fine anni ottanta che vedeva le mirabolanti gesta di cowboy contro zombi?.

Ovviamente no, e quindi eccoci a parlare della pellicola di George Hickenlooper, uscita per il mercato anglosassone con il titolo “The killing box” (dal nome di una manovra di tattica militare, che prevede, in un certo senso, la quadratura del cerchio: si spara al nemico accerchiato da quattro diversi punti, con un fuoco incrociato che non lascia scampo) e conosciuta anche con il titolo “Grey Knight” o “Ghost Brigade”.

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Gli zombie sbarcano in Africa, ma non portano nessuna innovazione, rimanendo ancorati alla classica cinematografia zombesca.

In tema di zombie il cinema ha detto tanto, saccheggiando qualunque fonte (letteratura, fumetti) alla ricerca di innovare un prodotto già ampiamente spremuto. Se aggiungiamo che, dopo il fenomeno dei nuovi vampiri, anche i morti viventi stanno vivendo una nuova alba, un film come The Dead perde quel briciolo di ragione d’esistere che chiunque, anche i più generosi, erano disposti a concedergli.

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E’ brutto, ma non è quel tipo di fallimento orrorifico di cui sparlare su un divano o in una chat. Lo si dimentica ancor prima di concluderlo.

Parlare di un film bello fa talvolta le fortune del critico: si può ricorrere a paroloni, concettoni e perdersi in colti (e anche un po’ estenuanti) excursus sul cinema e sul suo appeal. D’altro canto un titolo brutto permette di sfogarsi in lungo e in largo sulla mediocrità dello scritto, del girato e del recitato fino allo stremo delle forze e dei caratteri.

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Un insolito connubio di trash, horror, romanticismo e commedia giovanile che, nonostante la pessima fattura, diverte parecchio e rischia quasi di intenerire

Correvano gli anni ottanta quando James Aviles Martin e George Seminara decisero di sperimentare cosa poteva accadere ad immergere una commedia adolescenziale con tendenze romantiche in uno spesso strato di sangue finto a buon mercato.  La reazione chimica che ne risultò non fu certo esplosiva come quella delle mentos nella coca cola, ma sì dimostrò abbastanza divertente, e così, nel 1987, venne alla luce  I Was a Teenage Zombie (tradotto senza apparenti motivazioni con I ragazzi del cimitero).

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