Ancora non è chiaro se in Italia sarà distribuito con il titolo del precedente Esp-Fenomeni Paranormali o se manterrà la dicitura originaria Grave encounters, fatto sta che a ottobre ci divertiremo nuovamente (?!) con i pazzerelli agli infrarossi portati alla celebrità dai Vicious Brothers l’anno scorso. Come sarà parso chiaro all’attento lettore, stiamo per trattare l’anteprima del secondo capitolo in POV di uno dei fenomeni mediatici della scorsa stagione, ESP-Fenomeni Paranormali, cliccatissimo su You Tube e nel complesso ben accolto anche in sala, e a conti fatti non un film da gettare nel sacco dell’organico.
Justin Benson e Aaron Moorhead sono due perfetti geek, termine anglofono che sta al nostrano “sfigato”. Vedendo le loro foto in rete non puoi che soffermarti sulla luce fioca che traspare dagli occhi, su quell’espressione narcotizzata e sul pessimo gusto dei loro capi da inconsapevoli hipster. Ma l’abito non fa il monaco e nemmeno il cineasta, perchè, invero, Justin Benson e Aaron Moorhead di sfiga ne hanno avuta davvero poca. Resolution, il loro lungo d’esordio dopo dozzine di corti e di spot, pare sia folgorante.
Addentrarsi in un’analisi dei significati psico- sociali, riflettere sulle portata del retaggio hitchcockiano a livello di tecnica rappresentativa, comparare, catalogare, rivisitare, tutto appare fuorviante, quasi blasfemo. Parlare di Psycho nel 2012 è come parlare di Revolver dei Beatles o del Macbeth di Shakespeare, opere immortali di cui si sa tutto e nulla, creazioni figlie di genialità estemporanea, lontane dal concetto di epitome perchè prive di parti sacrificabili. Sono passati cinquantadue anni da quando Alfred Hitchcock sconvolse il composto eppur smanioso pubblico dei ruggenti Sessanta.
Regista incostante che verrà ricordato dagli antologisti negli annali come l’autore di quel grande film chiamato L’Esorcismo di Emily Rose (2005), forse il miglior lungometraggio di sempre intorno il tema della possessione diabolica dopo (ovviamente) L’Esorcista (1973, William Friedkin), mica pizza e fichi insomma. Questo nella migliore delle ipotesi, perché viceversa Derrickson, a cui auguriamo ovviamente lunga vita, sarà ricordato come un autore fortunato più che bravo, come colui che ha incrociato la dea bendata nel momento di raccontarci l’angosciante vicenda della giovane Emily ma a cui è riuscito bene un film ed uno solo. Uno di passaggio in sostanza.
Non abbiamo ancora digerito la disgustosa ma spassosissima visione dei morti coprofiliaci di Zombie Ass: Toilet of the Dead che già una nuova disturbante pellicola è in arrivo dai laboratori della Typhoon Sushi, vera e propria fabbrica dell’estremo made in Japan. Principali esponenti della Typhoon sono due registi apprezzati e stimati non solo in patria, tra loro simili solo in prima analisi per attitudine e stile. Stiamo parlando di Noburu Iguchi e Yuday Yamaguchi, due quarantenni completamente pazzi a cui si deve il merito di aver riportato ai fasti di Tetsuo: The Iron Man (1989, Shinya Tsukamoto) il Cinema estremo del Sol Levante.
Eduardo Sanchez è cubano, è talentuoso ma soprattutto è un pioniere. Pensate al mockumentary, all’insieme di pellicole di successo e non, sorte come negozi cinesi in via Sarpi a Milano. Tutto è partito dall’idea geniale di quest’uomo e di un manipolo di amici sagaci e temerari.
Più che una moda dalle velleità revisioniste e celebrative, la tendenza al favoleggiare d’orrore può forse definirsi l’ennesimo banale tentativo di fare mercato ostentando presunta originalità. In letteratura numerose fiabe furono modellate nei contenuti in senso oltremodo violento per far si che l’immaginazione, lontana dai saccadi oculari, potesse alimentare la rappresentazione di una figura poco ansiogena, non minacciosa, elaborata dal bambino, con l’aiuto di un adulto, in senso per antonomasia fantasioso, non memorizzabile e di conseguenza non estendibile alla raffigurazione sia in fase onirica che di veglia.
L’avvento del Cinema tarantiniano e rodregueriziano e il conseguente sdoganamento della Bis Art a genere eletto, hanno l’innegabile merito di aver ridefinito i confini di ciò che viene etichettato per sommi capi come Cinema Cult.
L’Est Europa ha un innegabile e più che solido legame con L’orrore. Pur senza addentrarci in complesse disamine socio-storico-politiche, non ci si può esimere dal pensare tale angolo di mondo come teatro di violenze inenarrabili, leggende da brivido, decadenza, natura selvaggia, insicurezza, tentazione peccaminosa, diffidenza. Tutti ottimi ingredienti da servire alla mercé di sua maestà paura. Da Dracula (1931, Tod Browning) a Hostel (2005, Eli Roth), da The Black Cat (1934, Edgar G. Ulmer) a Meteletsa (2011, Nikolai Pigarev), il cinema horror ha perseverato a più riprese nello sviluppare ambientazioni fatiscenti e inquietanti, uniche nel loro genere, che solo la parte orientale del Vecchio Continente offre.