“And I heard a voice in the midst of the four beasts
And I looked and behold, a pale horse
And his name that sat on him was Death
And Hell followed with him”
(“The Man Comes Around” – Johnny Cash)
Sulle note di The Man Comes Around, magnifico pezzo di Johnny Cash, scelta inconsueta ma quanto mai azzeccata, scorrono i titoli di testa de “L’ Alba Dei Morti Viventi”, a film già iniziato, dopo un prologo che ci mostra un primo sviluppo di narrazione.
Realizzata nel 2004, con un budget di 28 milioni di dollari e distribuita dalla Universal, la pellicola segna l’esordio su grande schermo del regista Zack Snyder, che in seguito dirigerà titoli come “300” (2006) e “Sucker Punch” (2011).
Nessuno zombie-movie ha più toccato vette così alte, lasciando a questo film il podio di capostipite, insieme alle altre due magnifiche pellicole della Trilogia Romeriana. Imperdibile e assoluto.
C’ è proprio poco anzi, pochissimo da salvare in questo Zombie Apocalypse, ennesima (non) variazione sul tema dei living dead, film televisivo prodotto dalla Asylum per il canale tematico statunitense Syfy, entrambi nomi già noti, e non in senso positivo, per un buon numero di releases non esattamente eccelse. Dirige Nick Lyon, con la mano sinistra e probabilmente anche ad occhi chiusi, visti i risultati francamente imbarazzanti dell’ operazione.
Fu una scommessa non da poco realizzare questo film, quarto capitolo di una serie che, dopo lo sfortunato Alien 3 (1992), diretto da David Fincher, sembrava ormai destinata a concludersi. Il terzo episodio della saga di Ripley e gli xenomorfi infatti, fu bistrattato sia dai fans che dalla critica: i primi, lo giudicarono troppo cupo e non all’ altezza dei due splendidi predecessori, la seconda, lo liquidò senza troppi complimenti, mettendo a rischio la carriera dell’allora esordiente Fincher.
Tratto dal primo dei tre romanzi di Stieg Larsson e preceduto dall’ omonimo film del 2009: molto più che un semplice remake, l’ opera di Fincher è splendida e affascinante rilettura.
Film difficile da definire questo “We Are What We Are” (Somos Lo Que Hay), lungometraggio d’ esordio del regista messicano Jorge Michel Grau (nessuna parentela col quasi omonimo autore de “Non Si Deve Profanare Il Sonno Dei Morti”), pellicola anomala sotto diversi aspetti, che già vi annunciammo due anni or sono in questa news. Ci si sradica completamente dall’ eredità horror del proprio Paese, sia quella più recente e nota (Guillermo del Toro ed il suo stile cupo e fiabesco), che quella ruspante e squisitamente di serie B degli anni ’50 / ’60, ricordata soprattutto per titoli come “El Vampiro” (1957) di Fernando Mendéz e le pellicole di René Cardona (“La Horripilante Bestia Humana”, del 1969, e la serie di film sull’ eroe mascherato Santo, alle prese di volta in volta con vari ed assortiti mostri). Da non dimenticare anche il figlio di Cardona, René Jr: tra i quasi cento titoli della sua produzione troviamo “Il Triangolo delle Bermude” (1978) e “La Notte Dei Mille Gatti” (1972).
Film a suo modo atipico, nel filone degli slasher movies, questo primo capitolo della lunga saga di Venerdì 13, firmato da Sean S. Cunningham, già produttore del cult “L’Ultima Casa a Sinistra” (1972), di Wes Craven. Atipico, poiché segna la nascita di un “nuovo mostro”, senza mai mostrarlo. L’icona Jason Voorhees, infatti, si manifesterà, così come noi la conosciamo, monolitica nella sua maschera da hockey, solo dal terzo film, il sequel “Venerdì 13: Weekend di Terrore” (1982), per la regia di Steve Miner (qui nelle vesti di produttore associato) .
Infonde una certa nostalgia questa gran bella pellicola a episodi, diretta da Freddie Francis e prodotta dalla britannica Amicus; ce ne fossero ancora, di film godibili come questo, quei film che ti fanno esclamare “già finito?” davanti alla parola “The End”.
Questa bella pellicola di Bob Clark, di cui ricordiamo l ‘inquietante “La Morte Dietro La Porta”, anch’esso targato 1974, è da considerarsi a tutti gli effetti non solo uno dei prototipi dello slasher così come lo conosciamo ma anche il precursore di molti film successivi: impossibile, infatti, non pensare all “Halloween” di Carpenter (1980) ma soprattutto a Dario Argento, nelle soluzioni visive, in alcuni passaggi narrativi, nell’uso dei suoni e delle voci e in intere sequenze che sembrano prese di peso dai primi film del regista romano.