Un detective a caccia della verità attraverso i ricordi di un’ambigua ragazzina in questo immaginifico thriller d’esordio di Jorge Dorado.
Uno dei luoghi più affascinanti e spaventosi che si possa concepire è senz’altro la mente di un essere umano. L’inpenetrabilità della mente altrui, l’impossibilità di conoscere ciò che si cela nella mente dell’altro è da sempre uno dei misteri che affascinano e terrorizzano l’umanità. Di conseguenza, uno dei sogni dell’uomo è sempre stato quello di poter leggere o addirittura penetrare nella mente degli altri.
Proprio il tema dell’esplorazione della mente è stato un tema affrontato dal cinema fantascientifico, orrorifico e fantastico: si va dal barocchismo visivo fine a se stesso di The Cell fino ad arrivare alle meraviglie visive ma un po’ fredde di Inception passando per l’anarchica visionarietà di Paprika – sognando un sogno di Satoshi Kon. Mindscape s’inserisce in questo filone percorrendo anch’esso la strada del thriller. John lavora come investigatore sfruttando la sua capacità di riuscire a entrare nella memoria delle persone. Dopo un periodo di crisi gli viene affidato un caso apparentemente molto facile: scoprire quale trauma a spinto Anna, una sedicenne prodigio di ottima famiglia, a rifiutarsi completamente di mangiare. Andando sempre più a fondo dei suoi ricordi e nella storia della sua famiglia, John si ritroverà invischiato in una vicenda sempre più ambigua e intricata. Una dubbio si farà strada nella sua mente: cos’è Anna? Una ragazza traumatizzata oppure una pericolosa sociopatica?
Nonostante Mindscape sia il primo lungometraggio di Jorge Dorado, non c’è di certo un novellino: la sua è una carriera che come direttore della seconda unità e assistente di regia vanta collaborazioni con registi del calibro di Almodovar e Del Toro.
Uno dei punti di forza del film è proprio la regia solida e controllata, che riesce a sottolineare efficacemente sia le scene oniriche che quelle ambientate nella realtà.
Il cast offre un ottima interpretazione, eccettuato Mark Strong che fatica a trasmettere al pubblico qualsivoglia emozione al di fuori dell’espressione sofferente/assente. La giovane coprotagonista Taissa Farmiga, invece, offre una prova estremamente convincente capace di portare lo spettatore a credere alla sua innocenza, a preoccuparsi per il suo personaggio e a pendere dalle sue labbra. La sceneggiatura, che dapprima sembrerebbe essere troppo buttata via e ricca di stereotipi, nel finale rende conto di ogni scelta e ogni elemento trova una sua collocazione rendendo tutto coerente e sensato. Peccato che coerente e sensato non siano sinonimo di emozionante e convoilgente. Il problema del film è la costante sensazione di Deja-vù che la visione suscita nello spettatore più smaliziato: si prova costantemente la sensazione, non di trovarsi di fronte a un brutto film ma a un film già visto. L’eroe dal tragico passato, la ragazza innocente in difficoltà che nasconde un segreto, un capo premuroso e paterno con un lato oscuro e infine l’eroe vittima di una macchinazione: tutti elementi che lo spettatore riconosce e di cui riesce subito a prevedere quali saranno gli sviluppi e le conseguenze. Questo senso costante di già visto rende il film un occasione sprecata a cui avrebbe giovato un po’ più di coraggio nella scrittura e nella caretterizzazione dei personaggi.
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