Il Re dei Mostri è tornato, più grande e inarrestabile che mai.
Correva l’anno 1954. Marylin Monroe sposava Joe di Maggio, la Corte Suprema statunitense dichiarava incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole e From here to eternity vinceva l’Oscar come miglior film. Mentre la Guerra Fredda preoccupava ancora il mondo con la sua minaccia, dall’altra parte del Pacifico due uomini, Ishirō Honda e Tomoyuki Tanaka, si prestavano a creare inconsapevolmente ciò che sarebbe presto diventato un simbolo, un’icona e un Re: Gojira, o, com’è meglio conosciuto in occidente, Godzilla.
Ispirato a The Beast from 20,000 Fathoms, film fantascientifico che in Giappone ebbe un discreto successo, e riuscendo contemporaneamente a scostarsi dalla nomea di semplice film di fantascienza, Godzilla è sia il capostipite del genere conosciuto come Kaijū eiga, film di mostri giganti, che l’atto di accusa e denuncia di Honda verso il pericoloso utilizzo del nucleare, lo stesso nucleare che illuminò di fuoco il cielo d’Agosto ad Hiroshima e Nagasaki, e che il regista nipponico, prigioniero di guerra in Cina, mai dimenticò. Contestualizzazione a parte, il Re dei Mostri giapponese guadagnò un successo tale da generare altri ventinove film, suddivisi in tre ere, Shōwa, Heisei e Millenium, che dal 1954 corrono fino al 2014 e al nuovo corso inaugurato dal reboot che il lungimirante Thomas Tull, patron di casa Legendary, ha sorprendentemente affidato a Gareth Edwards, il regista del controverso Monsters.
Non molti credevano in questa nuova versione del mostro atomico, ma Tull non è l’ultimo arrivato ad Hollywood e dopo aver prodotto opere come Pacific Rim, la trilogia del Cavaliere Oscuro e 300 non si può dire il contrario. Proprio per questo motivo la notizia che un simile reboot sarebbe stato diretto da un regista come Edwards, con due soli lungometraggi alle spalle di cui uno per la TV, ha lasciato basiti e preoccupati. Soprattutto perché pensando a Godzilla, nel 2014, può sorgere spontanea una domanda: ne abbiamo ancora davvero bisogno? Il gigantesco mostro, simbolo di una paura e di un pericolo che il Giappone del dopoguerra ben conosceva, ha forse perso negli anni il suo valore simbolico, capitolando in nome di un cinema che ha ridotto l’allegoria a mera commercialità. Forse, perché purtroppo il simbolismo di Godzilla risulta più attuale di quanto non si vorrebbe, specialmente dopo la tragedia di Fukushima nel 2011, questione che volenti o nolenti non si può trascurare quando si parla di nucleare. Nello spirito di questa modernità si muove il film di Edwards, con il rispetto e la sensibilità dovuti a fatti che sono costati la vita di molte persone, aggiungendo quel realismo, nel limite che questa parola può raggiungere quando si tratta di mostri giganti, che era mancato al blockbuster di Emmerich, nel 1998. Se il remake del regista di Stargate e Indipendence Day era in fondo un godibile monster movie, è altrettanto vero che quell’iguana gigante affamata di pesce non era neanche lontanamente avvicinabile al Re dei Mostri. Insomma, il nome sulla locandina conta poco se non si rispettano almeno le basi di ciò che ha reso Godzilla una leggenda.
A quanto pare Edwards e Max Borenstein, lo sceneggiatore, hanno capito che non bastava contestualizzare, ma occorreva infondere alla storia qualcosa di più, un realismo che andasse a puntare direttamente alla dualità racchiusa nel cuore del mostro: “I mostri hanno sempre rappresentato delle metafore per qualcos’altro […]. In un certo senso, Godzilla impersona una specie di ‘furia divina’, non nel senso religioso, quanto piuttosto la punizione della natura per quanto abbiamo fatto al mondo”. Le parole del regista trovano riscontro nella pellicola, che riprende effettivamente un discorso iniziato da Honda nel lontano ’54. Come nell’originale, anche qui l’umanità è resa insignificante di fronte alla maestosità e alla potenza distruttiva della natura, ma al contempo la stessa umanità si ritrova unita e capace di sopravvivere davanti alle avversità. Aggiornando e modernizzando il plot, Edwards e Borenstein permettono una maggiore immedesimazione da parte dello spettatore, quasi stesse assistendo ad un disastro avvenuto ai nostri giorni, con il maggior realismo possibile. Oggi come allora, quindi, è la stessa frase a riassumere il significato di Godzilla: l’arroganza dell’uomo è pensare di avere la natura sotto il proprio controllo e non l’esatto contrario.
Il nuovo Godzilla scarta e si discosta dal Pacific Rim di Guillermo del Toro, che già era riuscito nell’impresa di riportare in auge, seppur per un pubblico magari più settoriale, i Kaijū, facendoci assistere inermi all’avanzare dei mostri, alla loro squassante potenza, sistemandoci alla pari di tutti gli altri esseri umani, nell’impotenza. Così ci ritroviamo al fianco di Joe e di suo figlio Ford, militare intento a ritornare dalla sua famiglia, immersa chissà dove nella distruzione di San Francisco. Con loro e con tutta la popolazione viviamo le due grandi battaglie raccontate nella pellicola: quella per la sopravvivenza umana e quella per l’affermazione di creatura dominante, che Godzilla combatte contro due Massive Unidentified Terrestrial Organism (MUTO), diventando inconsapevolmente il protettore dell’umanità, quando le armi e le tattiche usate contro le enormi creature si rivelano poco utili.
Edwards dirige la storia e la distruzione con sorprendente funzionalità, utilizzando un metodo già visto ne Lo Squalo di Spielberg per mostrarci il mostro atomico: lentamente, poco per volta, fino alla meravigliosa scena in cui possiamo ammirare in tutta la sua maestosità il nuovo design di Godzilla, gigantesco, finalmente tornato ai fasti di un tempo dopo l’incomprensibile forma saettante che Emmerich e Tatopoulos gli diedero nel 1998. Tra scene epiche, tensive ed emozionanti, il 3D è utilizzato in maniera intelligente, senza infastidire o prevaricare, ottimamente inserito ad uso di un regista che sembra sapere esattamente come muoversi in un film da circa 160 milioni di dollari. Coadiuvato dalla colonna sonora, che tra Gyorgy Ligeti e Alexandre Desplat regala attimi di considerevole emozione, e da un cast che si rivela scelta perfetta, Gareth Edwards attraversa le fiamme senza scottarsi. Certo, l’opera non è esente da errori e qualche scena può lasciare un istante dubbiosi, tuttavia il lavoro di Bryan Cranston, Aaron Taylor-Johnson, Ken Watanabe, Elizabeth Olsen, Juliette Binoche, di Borenstein e di tutti gli altri è onesto e onora seriamente ciò che il Re dei Mostri è stato e potrà ancora essere. Soprattutto, onora Honda, Tanaka e la Toho, casa di produzione nipponica nota proprio per i film di Gojira, senza dimenticarsi però il resto del pubblico a digiuno di Kaijū eiga.
Il Re non è mai stato così grande e potente, il suo sotto testo allegorico è incredibilmente vivo e moderno e il suo ruggito risuona sempre rabbioso e selvaggio come la natura che rappresenta. Dopo sessant’anni, il fuoco radioattivo di Godzilla è ancora rovente. Così come la sua leggenda.
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