Miss Zombie non è un film per tutti e anzi farà – e ha fatto – storcere il naso a una discreta fetta di pubblico, soprattutto occidentale.
In un Giappone contemporaneo dove l’infezione zombie è stata del tutto controllata e normalizzata, Sara (Ayaka Komatsu) è uno zombie di livello uno, non più umana ma nemmeno così lontana da quella che fu la sua condizione naturale: gli zombie di livello uno sono i candidati ideale per lavori di fatica e, nel suo caso, per il ruolo di donna di servizio nell’abitazione dell’agiata famiglia che l’ha regolarmente acquistata.
Ma l’arrivo di Sara inizia ad erodere dall’interno l’apparentemente solido microcosmo della famiglia Teramoto: i suoi silenzi, la sua sottomissione e la sua passiva obbedienza porteranno alla luce, per contrasto, tutti i conflitti che le convenzioni sociali avevano fino a quel momento soffocato, in un fisiologico crescendo di tragica violenza che travolgerà tutto e tutti.
Non si può che accogliere con un sospiro di sollievo il ritorno di Sabu, al secolo Hiroyuki Tanaka, ad un cinema più convenzionalmente di genere, intimo e personale dopo le uscite più commerciali (Bunny Drop) o didascaliche (The Crab Cannery Ship) degli ultimi anni. Lui che, una volta abbandonata un’oscura carriera d’attore, aveva trovare nella regia una ben più efficace medium per esprimere appieno la propria indiscussa creatività. Una creatività mai fine a se stessa, anzi legata a doppio filo alle proprie radici giapponesi, alle storture e alle contraddizioni della propria cultura: in questo senso Miss Zombie è l’ideale punto d’incontro tra l’irresistibile potere attrattivo che il cinema di genere ha sempre avuto sul regista, la sua peculiare cifra stilistica e le suddette spinte all’analisi sociale. Iniziamo col dire che Miss Zombie non è un film per tutti e anzi farà – e ha fatto – storcere il naso a una discreta fetta di pubblico, soprattutto quello occidentale che, poche eccezioni a parte, ha storicamente accettato come uniche declinazioni possibili del tema-zombie quelle splatter o a-là horror comedy, bocciando sistematicamente qualsiasi altro sapore abbiano cercato di dare alla solita minestra. In questo senso Miss Zombie è quasi una bestemmia, votato com’è alla più totale essenzialità estetica ed ambientale: immerso in un bianco e nero austero e chirurgico – con una sola, fondamentale eccezione – e in un silenzio sempre più ingombrante che lascia il minimo indispensabile di spazio a pochi dialoghi asciutti, tutto il comparto estetico della pellicola è pensato per dare una sfumatura quasi surreale al placido tran-tran del sobborgo borghese dov’è ambientata.
E’ in questo contesto onirico, subacqueo e sottilmente angoscioso costruito sulle più tradizionali convenzioni sociali del Sol Levante che la destabilizzante presenza di Sara inizia a far vedere i propri effetti: ben lontana da ciò che l’immaginario comune ci ha insegnato essere un zombie, Sara è un essere pietoso, appena presente a se stesso, indifeso e ancora tragicamente legata al suo recente passato umano – la ferita sull’addome a certificare una maternità perduta che lei cercherà in qualche modo di recuperare – non più umana ma ancora sufficientemente donna per insinuare passivamente nella mente dell’uomo medio pensieri più che pruriginosi, oggetto inerme di ogni forma di attenzione. Dal figlio del proprio padrone che la fotografa senza sosta, ai dipendenti dello stesso che si intrattengono ad apprezzarne le forme mentre lei senza sosta pulisce l’acciottolato, alle stesse equivoche attenzioni del dott. Teramoto, la muta allegoria di Sabu mette alla berlina con rara efficace il maschilismo di una società dove la donna quando non è serva è strumento di appagamento sessuale: in questo senso, non andrà certo meglio alla moglie del dottore, la cui condizione di essere umano a tutti gli effetti non rappresenterà, a conti fatti, alcuna vantaggio sostanziale rispetto a quella dello zombie Sara. Sono entrambe donne, e questo è quanto: la coraggiosa scelta del regista e sceneggiatore di risparmiarsi fino allo stremo su la stragrande maggioranza dei dialoghi, lasciando spazio ad una lenta, spietata messa in scena ai limiti del muto, alleggerisce la pellicola da qualsiasi rischio di didascalicità e retorica, dando vita con un ridotto sforzo economico a una pellicola a suo modo estrema, spietata, tragica e assolutamente da vedere.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.