L’esordio alla regia del giovane regista canadese Cody Calahan è un potpourri di idee già viste, inutili ripetizioni e attori dal talento discutibile che si barcamenano in un film malamente sceneggiato.
Sam e i suoi amici decidono di incontrarsi a casa di uno di loro per festeggiare l’anno nuovo ma prima che il conto alla rovescia possa iniziare cominciano a verificarsi strani eventi: un virus sta contagiando milioni di persone in ogni parte del mondo trasformandole in mostri violenti ed irrazionali.
I cinque ragazzi si barricano in casa e, grazie ai loro portatili e telefonini, cominciano a scoprire di più sul morbo che sta infettando il nostro pianeta. I sintomi prevedono allucinazioni e la fuoriuscita di sangue da naso e orecchie ma ancora non si capisce in che modo il morbo si diffonda. Infatti, nonostante l’isolamento, alcune delle persone nella casa cominciano ad ammalarsi. Nella nuova era del digitale, i social network e il web in generale impazzano di video e testimonianze, messaggi d’addio e confessioni. Tra i vari contenuti in rete un video rivelerà la verità, ma sarà troppo tardi.
Con Antisocial, Calahan ha cercato di creare un film horror che avesse alla base una critica sociale rivolta alle nuove generazioni, distaccate e ossessionate dalla creazione di nuovi contenuti sui propri profili social. Peccato che i vari stimoli che il film può dare allo spettatore abbiamo un retrogusto di déjà-vu. La causa della diffusione del morbo, ovvero proprio il social network ‘the social redroom’ che quasi tutti i protagonisti consultano continuamente, non viene celato allo spettatore, anzi, si cerca di far capire sin dal principio il ruolo essenziale che ricopre nella storia ma soprattutto che i ragazzi hanno deciso di concedergli. Anche in questo niente di nuovo. Se poi anche il fatto di lasciare continue testimonianze sul web possa ricordare diverse altre pellicole, bisogna ammettere che sono riusciti a dargli una motivazione nuova: non è più legato al voler lasciare una testimonianza per aiutare magari chi è in ascolto, ma un bisogno inconscio e inconsapevole di continuare a ‘postare’ qualcosa.
Tra tutte le varie idee riciclate, trovano spazio anche alcune immagini degne di nota: l’allucinazione finale prima della trasformazione delle vittime del morbo o i contenuti web creati post-mortem, che fanno capire ancora di più come alla base ci fosse un progetto un tempo valido distrutto poi da una sceneggiatura scarna e confusionaria. I dialoghi sono puerili e fittizi e, insieme alla recitazione altalenante dei protagonisti, non aiutano certo la credibilità del film. I personaggi infatti sono costruiti in maniera frettolosa ed incoerente che spinge lo spettatore a non prenderli assolutamente sul serio ma piuttosto a ridere delle loro azioni. Nel momento in cui il film cerca di spiegare in maniera quasi scientifica come la tecnologia non solo sia un danno ma sia un’entità ormai senziente che cerca di controllarci per salvaguardarsi, Antisocial rivela il suo più grande problema, ovvero che si prende troppo sul serio per essere divertente per lo spettatore ma si è spinto troppo in là per essere effettivamente preso sul serio. Inoltre i momenti di attesa sono molti e troppo spesso il film si ripete da solo.
Da salvare sicuramente una delle prime scene in cui vengono presentati i vari personaggi che partecipano alla festa: non più attraverso le parole ma grazie alla pagina del loro profilo sul social network che già dal nome (social redroom) e quindi dall’evidente citazione, ci anticipa che non porterà a niente di buono.
In sostanza il film di Calahan sarebbe potuto diventare una pellicola interessante ma è finito per essere solo uno dei tanti tentativi confusionari e fallimentari di dire qualcosa di nuovo e diverso utilizzando cliché e idee già viste e sentite.
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