E’ nella negazione e nel rifiuto così brutalmente esplicitati della forma di naturalità più immediata, istintiva e ancestrale il centro di gravità permanente attorno cui gravita questa nuova Carrie.
Chamberlain, Maine: la timida e sensibile Carrie White (Chloe Moretz) è l’emarginata che ogni liceo d’America si vanta di avere e tormentare; cresciuta al riparo da un mondo brulicante di vizi e peccato da una madre votatasi al fondamentalismo religioso, Carrie è arrivata all’ultimo anno di scuola senza la pur minima coscienza della propria condizione di giovane e di donna, agnello tra lupi cui la madre ha sistematicamente negato ogni strumento per interpretare una realtà adolescenziale tragica e spietata. Una quotidianità di tormenti che la spingono a un pressoché totale isolamento, dedicato allo studio e all’esercizio di quella incredibile capacità di muovere gli oggetti con la sola forza del pensiero che la spaventa tanto quanto la incuriosisce. Dopo un terribile episodio di bullismo nei suoi confronti, è la compagna Sue (Gabriella Wilde) l’unica a sentirsi in dovere di porgere una mano nei confronti di Carrie e costringe il proprio ragazzo e bello del liceo Tommy (Ansel Elgort) a farle da cavaliere all’annuale ballo scolastico. L’ennesimo, crudele scherzo organizzato nei suoi confronti, appena dopo la sua elezione a reginetta del ballo, sarà la goccia definitiva e Carrie, sconvolta dalla vergogna e dall’ira, scatenerà il caos dando fondo a tutti i propri poteri telecinetici.
C’è una scena, in questo nuovo adattamento/ammodernamento firmato Kimberly Pierce (Boys don’t cry) del romanzo d’esordio di sua maestà Stephen King, che fa da prologo al film e che nei fatti si rivelerà essere una dichiarazione d’intenti, un’esplicitazione della radice vera, più intima e sostanziale dello script firmato Roberto Aguirre-Sacasa (Glee): nella solitudine della propria casa, in una notte di sangue e dolore Margareth ha appena dato alla luce Carrie. Come mossa da una forza superiore, la neo-mamma afferra un paio di forbici e le avvicina al corpo della neonata, salvo poi abbandonare ogni idea di infanticidio. E’ nella negazione e nel rifiuto così brutalmente esplicitati della forma di naturalità più immediata, istintiva e ancestrale – quella dell’amore materno – il centro di gravità permanente attorno cui orbita questa nuova Carrie. Una Carrie delicata e bella, di una bellezza mai sbocciata – che troverà una tanto degna quanto breve celebrazione la sera del ballo – e sistematicamente mortificata, programmata per non avere la minima coscienza di se stessa e lontana anni luce dalla aliena, tremante e quasi grottesca figura della Sissy Spacek di De Palma, così immediata nell’esplicitare, sin dalle proprie fattezze, il devastante disagio che la tormenta.
La Pierce invece ha snellito la sua figura della protagonista delle componenti estetiche più d’impatto e, investendola di una tragedia natale che l’ha condannata all’inadeguatezza, ne ha inquadrato le tragiche coordinate esistenziali in una dimensione più raffinata e sottopelle, trasformando quella stessa bellezza, intuibile ma negata e che, scommettiamo, farà storcere il naso a molti, in un’ennesima, beffarda sfaccettatura del tragico, inedito diamante-Carrie. Tra lei e la madre, una devastante Julianne Moore (Magnolia) capace di conquistarsi una bella fetta della scena stravolgendosi anima e corpo in qualcosa che sta a metà tra gli orrori della superstizione medievale e una follia di provincia assolutamente contemporanea, la sceneggiatura cuce una dialettica nuova e più complessa e un complicato e fitto tappeto di dinamiche psicologiche su cui poggiare gli elementi fondanti del romanzo di King che qui ritornano puntuali, in parte attualizzati per contestualizzare al meglio anche le dinamiche persecutorie, come la scena iniziale nelle docce della scuola, che verrà filmata con un telefonino e messa online dalla principale antagonista di Carrie. Fedele alla propria cifra stilistica e alla propria idea di cinema, la Pierce lavora il materiale kinghiano e lo declina secondo un mood che ne trasforma le componenti più genericamente orrorifiche in elementi da tragedia della formazione, in un insieme forte e coeso che pur non trascurando nessuno degli elementi cardine del romanzo è in grado di darsi una trasversalità che, se da una parte corre il rischio di deludere il pubblico horror più conservatore, dall’altra potrebbe avvicinare a un certo mondo quello più generalista storicamente diffidente nei confronti dell’horror convenzionale. L’immenso, inarrestabile dramma già scritto troverà sfogo e soddisfazione in un apocalittico epilogo più fedele al romanzo di riferimento rispetto alla versione di De Palma e meno retorico, ridondante di quest’ultimo nella sua drammaticità quanto decisamente più fisico e brutale nelle fantasiose misure punitive che la furiosa Carrie imporrà a quel mondo così crudele e incomprensibile di belli, sicuri e spietati: sarà solo in quel momento di lucida follia e di rinascita negata che la Erinni Carrie, ricoperta di sangue di maiale, lascerà nel mondo un segno tangibile della propria esistenza, un attimo prima di chiudere i conti e di andare a marcire all’inferno.
httpvh://www.youtube.com/watch?v=SdoVioPv0fs
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.