“E’ la realtà a definire le nostre paure e la nostra è fondamentalmente diversa da quella delle scorse decadi. E’ da questa presa di coscienza che nasceranno i nuovi classici”.
In occasione dell’annuncio ufficiale del sequel del cult Society, Brian Yuzna ha fatto con gli amici di Horror Channel UK un tuffo nel passato, tornando sulla genesi del grande Return of the living Dead 3, e il punto su presente, ragionando intorno a un futuro possibile del nostro genere preferito. Enjoy.
Quand’è che hai deciso che avresti dedicato la tua vita al cinema?
Come la maggior parte dei ragazzi amavo i film e sin dalla tenera ho avuto l’abitudine di guardare pellicole che finivano per terrorizzarmi. E’ in quei momenti che è nata quella passione per l’horror che mi ha accompagnato per il resto della vita, ma allora non avrei mai potuto immaginare che sarebbe diventata una professione a tutti gli effetti. Ai tempi delle superiori, quando ancora non esistevano i DVD con i contenuti extra e i dietro le quinte, io e qualche amico eravamo soliti gironzolare in compagnia di una 8 mm facendo esperimenti di ogni tipo, ma è solo quando vidi per la prima volta Truffaut’s day for night che compresi davvero com’era composto il lavoro di una crew. Qualche anno dopo ero in vacanza con la mia fidanzata di allora nei pressi di Cartagena, Columbia e casualmente passammo di fianco a quello che si rivelò essere un grosso accampamento di un set cinematografico. Quella sera stessa, a cena in un ristorante sulla spiaggia, finimmo per cenare al fianco di alcuni attori impegnati su quel set: più loro bevevano e facevano festa, più io mi rendevo conto che, benché io fossi in vacanza e loro stessero lavorando, si stavano divertendo molto più di me. E’ in quell’occasione che credo di aver capito che fare il filmmaker sarebbe stato il lavoro giusto per me! Nel giro di pochi anni mi ero introdotto nell’ambiente e, dopo aver acquistato una Bolex 16 mm, gettai le basi per il mio primo progetto, un insieme di effetti speciali che riadattai a corto vero e proprio. Benchè non avessi mai studiato cinema, imparai a girare semplicemente imparando da chi lo faceva intorno a me. L’intero processo mi affascinava, eccitante e appagante. Il mio corto era piuttosto scadente, ma ormai io spacciato. Mi trasferii a Los Angeles per fare il regista.
Com’è nato il progetto di Return of the living dead III?
Joel Castelberg e Danica Minor mi contattarono per la regia, perché avevano questi diritti da sfruttare e pensavano che sarei stato un buon collaboratore. L’idea mi convinse subito, sono un grande fan de Il ritorno dei morti viventi e de La notte dei morti viventi. Proposi che, per distinguere questo progetto dalla pletora di zombie movies già consegnati alla storia del genere, avremmo potuto fare in modo che i veri protagonisti della pellicola fossero gli zombie stessi. Dopo aver iniziato la raccolta dei finanziamenti e la ricerca di uno sceneggiatore, scoprimmo che l’agente di Joel e Danica aveva combinato un pasticcio e che i diritti non erano più nelle loro mani, così l’intero progetto affondò. Poco tempo dopo accennai la questione a Mark Amin, amministratore delegato della Trimark Pictures, e lui fece in modo di accaparrarsi quegli stessi diritti per poi offrirmi la produzione e la regia del progetto. Questa volta fu la Trimark a scegliere lo sceneggiatore e quando mi presentarono John Penney, capì immediatamente che era l’uomo giusto.
Cos’hai pensato alla prima lettura della sceneggiatura?
Non c’è mai stata una vera a propria prima lettura della sceneggiatura. John aveva quest’idea in testa di un coppia di ragazzi in fuga, una sorta di Romeo e Giulietta, in un mondo in cui i militari sperimentavano i morti viventi come armi. Non ricordo bene i dettagli, ma quello spunto sembrava sposarsi bene con la mia idea di mettere uno zombie a protagonista dell’intera vicenda. A quel punto John organizzò tutti i nostri spunti in una storia coerente condita di personaggi, e il risultato piacque parecchio alla Trimark. Quella è stata l’unica volta nella mia intera esperienza professionale in cui ho avuto lo sceneggiatore al mio fianco durante le riprese: mai come in quella situazione abbiamo letteralmente girato quanto scritto nella sceneggiatura, passo dopo passo.
Avete avuto problemi in fase di casting?
No, soprattutto perché avevamo alle spalle la Trimark. Avevano a disposizione validissime alternative per ogni ruolo chiave. Essendo loro direttamente coinvolti nel casting, fu una fortuna viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda: nonostante avessero idee preciso riguardo ai nomi da coinvolgere, non mi diedero mai l’impressione di impormi qualcuno che non fosse di mio gradimento. Il ruolo principale era ovviamente quello di Julie e fummo tutti d’accordo nello scegliere Mindy Clarke, ma il cast nel suo complesso funzionò alla grande, anche per quanto riguarda i ruoli minori.
Che percentuale del budget fu impiegata per gli effetti speciali?
Non altissima: lavorando con il mio partner di produzione Gary Schmoeller – a cui va buona parte del merito del successo del film – abbiamo scelto una soluzione che sapevamo avrebbero funzionato, avendole già usate in passato. L’abitudine produttiva dell’epoca era quella di affidare l’intero comparto effettistico del film a una sola, grande compagnia specializzata in FX. Il nostro approccio fu invece l’esatto contrario: con un budget limitato, ingaggiammo Tom Rainone come supervisore e lui appaltò il lavoro a diverse compagnie, a seconda della specificità di quanto richiesto e dell’abilità – e quindi del costo – delle varie compagnie.
Furono riprese complicate?
Furono complicate perché come al solito cercammo di ottenere un prodotto superiore rispetto a quanto ci avrebbe garantito il budget a disposizione. Tolto questo, eravamo così organizzati che non le definirei riprese complicate.
Da cosa credi dipenda l’affetto che il pubblico ha sempre manifestato nei confronti del film?
Dal fatto che è un buon film di zombie. Ha una narrazione solida e degli efficaci momenti horror. Credo che ciò che lo distingua dalla massa sia la storia d’amore attorno cui abbiamo costruito il resto. Il pubblico ha provato una fortissima empatia nei confronti di Julie e Curt. Io la vedo come una sorta di storia d’amore quasi gotica, una vicenda d’amore puro in un mondo allo sfascio.
Cosa pensi dell’attuale stato di salute dell’horror? Credo sia diventata vittima del suo stesso successo?
Senza dubbio l’horror è diventato talmente mainstream da perdere gran parte della componente di forte rottura e creatività trasgressiva che l’ha reso storicamente così importante. Gli stessi zombie hanno perso la loro componente macabra, quel sapore disturbante di cose morte tornate in vita nella maniera peggiore, riducendosi a pellicole d’azione legate ai concetti di malattia e sovrappopolazione. I vampiri ormai sono figure decisamente più romantiche che orrorifiche. Credo che il genere sia giunto alla fine di un lungo ciclo e che una nuova generazione di cinematografia horror sorgerà dalle radici della rivoluzione digitale, produttiva e distributiva. Siamo arrivato a un punto in cui le dinamiche classiche della sceneggiatura, applicata a un genere rigido e così codificato come l’horror, sono diventate terribilmente prevedibili. E’ compito della nuova generazione di filmmakers indicare una via all’evoluzione: in questo senso, la pellicola che più mi ha entusiasmato ultimamente è Cabin in the Wood. Il modo in cui ha messo a nudo i meccanismi dell’horror classico è anche e soprattutto una denuncia di come quelle dinamiche non possano più funzionare. E’ la realtà a definire le nostre paure e la nostra è fondamentalmente diversa da quella delle scorse decadi, ed è da questa presa di coscienza che nasceranno i nuovi classici.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.