Il veterano Renny Harlin torna alla grande nel genere horror con Devil’s Pass (2013): un inquietante mockumentary tra fantascienza e teorie del complotto
Renny Harlin, regista finlandese trapiantato negli USA e maestro dell’action-movie (Cliffhanger, 58 minuti per morire, Spy), torna a un’altra sua specialità, cioè l’horror: dopo Prison, Nightmare 4 e L’esorcista – La genesi, si confronta con uno dei sottogeneri che oggi vanno per la maggiore, cioè il mockumentary (“falso documentario”), dirigendo Devil’s Pass – The Dyatlov Pass Incident (2013).
Il film è basato su fatti realmente accaduti, il cosiddetto “Incidente di Passo Dyatlov”. Nel 1959, sotto la guida di Igor Dyatlov, nove escursionisti russi intrapresero un viaggio sui Monti Urali: due settimane dopo furono trovati morti, seminudi e senza ferite esterne. Nessuno è mai riuscito a spiegare questo mistero, sempre avvolto da una cortina di silenzio. Ai giorni nostri, cinque studiosi decidono di ripercorrere le orme della sventurata spedizione: raggiunta la remota zona degli Urali nota come “montagna dei morti”, i ragazzi devono confrontarsi con alcuni fenomeni inspiegabili (orme gigantesche, bagliori nel cielo, rumori non identificati) e con alcuni militari sovietici che cercano di ucciderli. Neanche il rifugio trovato in un bunker sotterraneo li mette al sicuro, anzi si troveranno di fronte a nuovi e orribili misteri.
Da Blair Witch Project (2000) in poi, il mockumentary è stato usato a dismisura, spesso unito all’espediente del found-footage (“filmato ritrovato”): un genere, ricordiamolo sempre, debitore del celeberrimo Cannibal Holocaust (1979) di Ruggero Deodato, vero e proprio capostipite. I risultati sono alterni, sia per l’abilità nel costruire la storia, sia per la capacità di variare sui temi: dopo le abusate storie di fantasmi e demoni, fa piacere assistere a prodotti diversi, per esempio vicende di serial killer o, come in questo caso, di fantascienza; tra possibili sbarchi di alieni, navi teletrasportate, varchi spazio-temporali e congiure del silenzio, ce n’è davvero per tutti i gusti.
La solida esperienza di Harlin differenzia Devil’s Pass da numerosi film al limite della ripresa amatoriale (che però in questo genere non è necessariamente un difetto, visto che aumenta l’effetto realistico). Il punto di vista è sempre quello della telecamera (potremmo definirla un’ideale “soggettiva”), usata però con mano ferma e professionale in modo da evitare il fastidioso effetto “mal di mare”: fa eccezione (volutamente) la parte finale, in cui, essendo i protagonisti in fuga, anche la videocamera si muove in maniera vertiginosa. Harlin costruisce una vicenda improntata alla massima credibilità possibile: dopo il prologo in cui si raccontano i fatti storici attraverso foto e didascalie e la presentazione dei cinque personaggi (tre ragazzi e due ragazze), si fa un salto in avanti nel tempo, mostrando telegiornali (finti ma verosimili) in cui si parla della loro scomparsa e il ritrovamento di un loro filmato. Si torna poi al passato, raccontando quanto è accaduto: curioso per un mockumentary, visto che la mano del regista non si dovrebbe vedere (dunque non dovrebbero esserci flashback o flashforward), ma terribilmente efficace. La sensazione di realismo ci accompagna per tutto il film, sostenuta dall’assenza di musica e dagli attori che recitano come se stessero prendendo parte davvero a un documentario. Per buona parte della vicenda, Harlin gioca più sul “non visto” che sul “visibile”, incutendo nello spettatore una sensazione costante di pericolo, mistero e inquietudine: sensazioni che esplodono poi nella parte conclusiva all’interno del bunker, dove vedremo esseri orribili, cadaveri e scheletri. Il finale naturalmente è aperto, non dà risposte ma suggerisce ipotesi, che comunque non vogliono essere spiegazioni più o meno scientifiche (dopotutto, siamo in un “falso documentario”): invasioni aliene, entità provenienti da altre dimensioni, civiltà antichissime, risultati di esperimenti segreti?
Degni di nota, infine, i paesaggi mozzafiato delle montagne innevate: scenari particolarmente amati da Harlin (vedasi anche Cliffhanger), forse per le sue origini nordiche.
httpvh://youtu.be/hdJ265kAkeM
About Davide Comotti
Davide Comotti. Bergamasco, classe 1985, dimostra interesse per il cinema fin da piccolo. Nel 2004, si iscrive al corso di laurea in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo (laurea che conseguirà nel 2008): durante gli studi universitari, ha modo di approfondire la sua passione tramite esami di storia, critica e tecniche del cinema e laboratori di critica e regia cinematografica.
Diventa cultore sia del cinema d’autore (Antonioni, Visconti, Damiani, Herzog), sia soprattutto del cinema di genere italiano (Fulci, Corbucci, Di Leo, Lenzi, Sollima, solo per citare i principali) e del cinema indipendente di Roger A. Fratter.
Appassionato e studioso di film horror, thriller, polizieschi e western (soprattutto italiani), si occupa inoltre dell’analisi di film rari e di problemi legati alla tradizione e alle differenti versioni di tali film.
Nel 2010, ha collaborato alla nona edizione del Festival Internazionale del Cinema d’Arte di Bergamo.
Scrive su "La Rivista Eterea" (larivistaeterea.wordpress.com), ciaocinema.it, lascatoladelleidee.it. Ha curato la rubrica cinematografica della rivista Bergamo Up e del sito di Bergamo Magazine. Ha scritto inoltre alcuni articoli sui siti sognihorror.com e nocturno.it.
Ha scritto due libri: Un regista amico dei filmakers. Il cinema e le donne di Roger A. Fratter (edizioni Il Foglio Letterario) e, insieme a Vittorio Salerno, Professione regista e scrittore (edizioni BookSprint).
Contatto: davidecomotti85@gmail.com
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