Tutti pronti a sperimentare il nuovo farmaco Pro9? Bene, allora porgete la vena e preparatevi a diventare perfette cavie umane…
Sette cavie umane. Sette persone che dovrebbero rappresentare i tipi medi della nostra società, si prestano ad un esperimento medico della durata di quattordici giorni. Il farmaco che devono sperimentare si chiama pro9 e non ci viene spiegato né a cosa serva, né quali potranno essere i suoi effetti; ci prepariamo così a un lungo countdown immaginando cosa potrà accadere durante la permanenza dei protagonisti nei laboratori dove rimarranno segregati per la durata dell’esperimento.
Questa, in poche righe, la trama di The Facility, lungometraggio d’esordio di Ian Clark regista britannico di cortometraggi; Clark cerca di saltare la staccionata del corto per approdare nel film vero e proprio e nel salto inciampa, picchiando di testa. Sono quattordici i giorni di quarantena dichiarati a inizio film, ma ci si limita a risolvere il tutto nel primo, dando quella sensazione da “Tutto in una notte” che va a minare la tensione iniziale, un po’ di suspence in più non avrebbe guastato. I sintomi del farmaco si manifestano nel giro di poche ore e per tutta la visione ci si chiede a cosa servirà mai questo Pro 9. Inutile aggiungere che non ci verrà mai tolto il dubbio, creando un vuoto nella storia che perde così in coesione generale.
Il regista, vuoi per lo scarso budget, vuoi per l’abitudine nel girare degli “short”, rende ogni singola scena come fosse un piccolo trailer di quello che potrebbe essere, utilizzando una tecnica di “vedo non vedo” che alla lunga risulta fastidiosa. Le esplosioni di violenza e gli effetti collaterali del farmaco sono sempre ripresi in secondo piano, con effetto sgranato o scarsa messa a fuoco, e il gioco alla fine diventa noioso per chi si aspetta quel qualcosa in più che però non arriva mai.
Durante la visione si ha la sensazione che si abbia fretta di concludere e di fretta si muove anche la telecamera che ora in un finto POV, ora in inquadrature fisse inchiodate in fastidiosi primi piani, non ci consente nemmeno di capire cosa succede alle nostre cavie. Spesso gli effetti secondari del farmaco ci vengono spiegati dagli stessi protagonisti, con dialoghi nel complesso scialbi e telefonati.
Le cavie impazziscono e si strappano i capelli, hanno eccessi d’ira, si ammazzano l’un l’altra; ma non si vede nulla. Gli espedienti per mascherare la mancanza di budget sono sempre gli stessi: un occhio che osserva da una fessura, una vittima al buio che usa un flash per vedere cosa accade e così via, fino all’inesorabile scontato finale.
Ma quello che fa più male è la mancanza di idee su di un plot semplice, che si sarebbe prestato facilmente a una messa in scena più dignitosa. Qui invece manca del tutto la coesione e più che ai buchi delle iniezione si pensa a quelli della sceneggiatura.
La pellicola scorre via così, lenta e senza quella verve registica o quella svolta di sceneggiatura che avrebbe potuto dare un senso in più alla visione.
Tutto finisce rapido come un rasoio sul collo ma senza troppo sangue e senza nemmeno farci sentire il rumore della carotite che va in frantumi al passaggio della lama affilata.
Da notare in ultimo che il titolo originale del film è Guinea Pig, che indica sì le cavie da laboratorio ma che è anche usato per indicare alcuni film giapponesi anni ’80 (Ginii Piggu) che fu oggetto di una (assurda) crociata censoria perché sospettati a torto di essere degli snuff movie. Tuttavia qui siamo da tutt’altra parte, altro che snuff. Le vere cavie siamo noi spettatori.
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