L’Esorcista III tradisce la profonda necessità da parte di Blatty di riaffermare il proprio ruolo di sceneggiatore, quindi di scrittore.
Sono passati quindici anni da quando padre Damien Karras liberò il corpo della giovane Regan dalla possessione del demone Pazuzu e una serie di brutali omicidi a sfondo religioso inquietano più del dovuto l’arcigno tenente Kinderman (George C. Scott), soprattutto perché la firma delle violenze sembra essere quella di James Vennamun, meglio noto come Gemini Killer, un assassino seriale giustiziato quindici anni prima.
La pista più calda porta il nostro tenente all’interno di un ospedale psichiatrico, dove, tra le farneticazioni di uno degli internati e una nuova, lunga scia di sangue, il poliziotto porterà alla luce una verità che ha che fare con forze che i più credevano sconfitte anni prima.
Deluso dagli esiti sia commerciali che più squisitamente autoriali del primo sequel dedicato al capolavoro di William Friedkin del 1973, quel L’Esorcista II – L’Eretico girato da John Boorman (Un tranquillo eekend di paura) e scritto da William Goodhart (Noi due a Manhattan), assolutamente valido ma privo del devastante e immediato potere comunicativo grazie al quale il capostipite della serie era riuscito a travolgere le masse cinematografiche, dopo lunga e dolorosa riflessione William P. Blatty decise di mettere personalmente mano alla serie – l’iniziale progetto di rimettere in cabina di regia Friedkin naufragò per le classiche insanabili divergenze artistiche, così come l’idea di affidarla a John Carpenter – traducendo in immagini Legion – Gemini Killer nella traduzione italiana – romanzo del 1983 in un complicato e ambizioso progetto da 12 milioni di dollari di budget che soffrì più del dovuto delle fisiologiche frizioni tra team creativo e vertici produttivi. Prodotto nel 1990 ma profondamente debitore di un comparto visuale tipico del decennio precedente, L’Esorcista III è un film complesso e stratificato, sviluppato intorno a una sceneggiatura che da un incipit di stampo poliziesco è capace di sfumare con invidiabile, particolarissima armonia in una sorta di oscuro thriller esoterico e visionario che, ben lontano dalle soluzioni che resero immortale la pellicola di Friedkin, tradisce la profonda necessità da parte di Blatty di riaffermare il proprio ruolo di sceneggiatore – e quindi di scrittore – di fronte a quelle regole di mercato che dal marchio Esorcista pretendevano esclusivamente il reiterarsi dell’ immutabile formula possessione-redenzione con contorno di shock e orrore.
L’Esorcista III prende invece tutt’altra strada, costruito com’è in tutta la sua prima parte sulla definizione della figura del tenace e fumantino tenente Kinderman, interpretato da un George C. Scott (Il Dott. Stranamore, Changeling) sardonico e costantemente sopra le righe, che in contrapposizione a quella di Ed Flanders/padre Dyer crea una serie di godibili e validissimi duelli dialettici che, se da una parte fanno apprezzare ancora una volta l’eccezionale qualità autoriale di Blatty, dall’altra disorientano decisamente l’ignaro spettatore, che al posto di esorcismi e Regan varie si vede proporre lunghi dialoghi, protagonisti enormi ma senza un briciolo di possessione in corpo e la forte sensazione che qualcosa sotto quello spesso tappeto narrativo si muova, ma non abbastanza per i presunti standard di cui sopra. E nemmeno nel suo prosieguo la vicenda prende quella piega che in molti si sarebbero aspettati: l’arrivo in scena di un immenso e luciferino Brad Dourif (Il Signore degli Anelli, Qualcuno volò sul nido del cuculo) certo trascina la pellicola verso un mood esplicitamente più esoterico e in linea con certe attese, ma non cambia quella che è l’inerzia generale della pellicola, che preferisce stuzzicare piuttosto che affondare il colpo, addentrandosi nella materia demoniaca con spirito nuovo e più raffinato rispetto a quanto fatto in passato. Blatty immerge il proprio lavoro in un bagno allucinatorio di kitsch ottantiano e penombre il cui cuore è nuovamente il confronto tra protagonisti e attraverso il quale finisce per dipanarsi anche la fin troppo intricata matassa narrativa attorcigliatasi senza sosta fino a quel momento.
La storia ci insegna che Blatty rifiutò una precedente proposta produttiva perché i finanziatori avrebbero preteso la presenza nello script di una Regan adulta e madre di una coppia di gemelli posseduti dal vecchio amico Pazuzu: il punto focale è più significativo dell’intero progetto è che Blatty di esorcismi, esplicitazioni demoniache, sangue e vomito ne avrebbe volentieri fatto a meno, determinato a portare la propria creatura a un livello superiore, meno corporeo e più metafisico e filosofico. Nel girato originale in effetti di esorcismi non c’era traccia: l’esorcismo che padre Morning tenta sul Gemini Killer, assolutamente superfluo, totalmente slegato dal resto anche da un punto di vista puramente narrativo e costossimo, fu imposto dai produttori della Morgan Creek che pretendevano la presenza di almeno un esorcismo all’interno della pellicola. L’idea, che contrariò non poco Blatty, richiese la riscrittura parziale del finale della pellicola e l’inserimento forzoso di padre Morning all’interno di un meccanismo narrativo tanto faticoso quanto affascinante, involgarendone non poco il fascino sfuggente e squisitamente ottantiano.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.