Tre registi, cinque corti, sei topoi della cultura horror e un budget non da blockbuster. Un film senza lode e senza infamia, adatto per una serata con gli amici e un pò di pop-corn.
Cinque corti compongono l’intera pellicola, cinque storie a tutto tondo indipendenti ma connesse tra loro dalla presenza di una strana creatura che ne visiona i video su un sito horror, dall’ambientazione losangeliana e da sottili richiami e connessioni. I plot pescano le loro idee dal pool tradizionale dell’horror, sfiorando e rimarcando i toppi famosissimi dei vampiri, dei serial killer, dei fantasmi (alla giappo maniera), fino ad arrivare alla atavica coulrophobia (madre anche di un capolavoro infinitamente più meritevole di notorietà: It).
The Crossing, il corto di partenza, è probabilmente l’unico dei cinque a mostrare sufficiente inventiva da riscattare la scarsità di budget e la banalità della tematica zombie: ci presenta con attenzione e vividezza i tre razzisti personaggi prima di mandarli incontro al loro destino. Il secondo corto è Tajeung’s Lament, in pieno stile orientaleggiante, narra da un lato la disperazione di un uomo che ha perso la moglie e che vive nel suo ricordo e dall’altro l’affiorare del suo lato umano e carnale, fino a quando il fortuito coinvolgimento nel rapimento di una ragazza non cambierà le sorti della sua esitenza; si nota una discreta e visibile attenzione alla rappresentazione dei sentimenti che muovono le vicende ed un finale che comunque riesce inaspettato e piacevole dopo il climax narrativo precedente; la terza parte invece distrugge quel poco di aspettativa che si era creata confondendo lo spettatore e annoiandolo discretamente a morte: si chiama Re–memebered ed è un racconto di intreccio confusionario e banalotto incentrato sulla figura di un killer.
Clowned invece è proprio bellino, trama non convenientissima -e per qualcuno un po’ imbarazzante a tratti- a parte, sfoggia una perizia di trucco clownesco che fa davvero paura, andando a parare giusto per i poveri individui già affetti dalla fobia dei pagliacci e rinforzando un po’ il disgusto per questi ultimi in chi non ce l’ha; Uno spacciatore dal cuore d’oro è molto legato al suo fratellino e adora trascorrere tempo con lui e con la propria partner, l’aggressione improvvisa di un clown inquietante e aggressivo ai limiti del cannibalismo mette in crisi la stabilità di questo nucleo familiare dando inizio a una tremenda e irreversibile metamorfosi. Inutile specificare che di genere ci sono realizzazioni migliori (come il sopracitato It), perché ce ne sono anche di molto peggiori e imbarazzanti. Love Come Back chiude le danze: non ha grandissimo senso narrativo ma crea una suggestiva atmosfera ed esplora campi dell’occulto che ancora non erano stati sfruttati nelle storie precedenti.
Nel complesso si tratta di un’operetta marginale e senza grosse pretese, ma trae forza dalla divisione in capitoli indipendenti perché smorza un po’ la consueta noia che spesso generano i film non eccellenti; il corto in sé è un mezzo narrativo efficace e facilmente sfruttabile quando monetariamente non si è proprio sulla cresta dell’onda. Per la triade di registi (Bob Badway, Michael Emanuel e Igor Meglic) sembra una prova di divertimento e di espressione, dal momento che le esperienze di tutti e tre (Meglic ad esempio alla sua prima performance nella direzione) sono varie e distribuite fra i generi. Indicato per una serata compagnona con gli amici, senza troppe pretese e per farsi anche qualche risata; meno indicato da vedere da soli, più per delusione di aspettative e noia che per spavento.
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