La casa da sempre è un posto accogliente, simbolo di distensione, appagamento, rifugio contro i pericoli del mondo. Non stupisce perciò che il cinema horror se ne sia appropriato, capovolgendo questo concetto in una dimensione di terrore e spaesamento. Casa quindi non come simbolo dell’istituzione familiare, ma come luogo luttuoso, violento, spaventoso. Casa come rifugio per demoni sotterranei, per le nostre paure più ataviche diventate realtà. Da sempre il cinema della paura elesse come suo scenario delle dimore maledette, fin dagli albori del cinema in bianco e nero, retaggio di una certa letteratura gotica inglese, ma forse solo con Evil dead ebbe la sua massima espressione.
Era il 1981 quando uno studente di letteratura, Samuel Raingivitz, appena 22enne, decise di ampliare un cortometraggio amatoriale, Within the Woods, dalla trama semplice, una gita nei boschi, una maledizione secolare e zombi violenti. Complici due suoi amici di vecchia data, Bruce Campbell, con velleità di attore, che aveva appena mollato il college per fare il tassista, e Robert Tapert, laureando in economia, tutti spaventati dall’idea di un futuro di calma piatta che col cinema aveva poco a che fare. La passione dei tre era la commedia, ma decisero che il genere più redditizio fosse l’horror: la chiave sarebbe stato di puntare su una pellicola da drive in calcando la mano sul gore, il sangue e un ritmo indiavolato.
I tre si misero a studiare centinaia di film exploitation tra cui Massacre at Central High, prodotto da Russ Meyer, il regista delle tette a buon mercato, e Revenge of cheerleaders, concretizzando l’idea di uno spettacolo che avesse dentro di sè violenza e sesso. Perciò con solo 1600 dollari, pochi anni prima, i tre avevano realizzato Within the Woods, per capire se il progetto interessava a qualcuno. Il lavoro era rozzo, mal girato, ma pieno d’idee che sarebbero sublimate in seguito nell’anarchia visionaria dei futuri film del regista. In più, avanti nel tempo rispetto alla moda dei film su Lovecraft che sarebbe esplosa grazie a Charles Band, alla sua Empire e Re-animator, Within the Woods parlava del Necronomicon, testo maledetto dei racconti del folle di Providence. La corsa ai finanziamenti per Evil Dead fu piena di porte sbattute in faccia, ma con pazienza e fatica si arrivò alla modesta cifra di 350000 dollari. Tra gli investitori ci fu Andy Grainger, amico di Tapert e proprietario di una serie di sale cinematografiche, che stimolò i giovani consigliando loro: “Ragazzi, non importa cosa vogliate fare, basta che sullo schermo scorra sempre il sangue e conquisterete tutti“. Il resto è un caposaldo del cinema del terrore.
Evil dead
Il film fu girato in 16 mm e in seguito gonfiato a 35, grazie alla fama che comunque il film stava racimolando in giro per il mondo, diventando qualcosa di più che semplice spettacolo settorializzato in un drive in. La cosa che faceva impazzire gli americani era che questo modesto low budget, dalla trama vista centomila volte prima, faceva davvero paura e non assomigliava a nessuna cosa già vista in precedenza. Era solo di pochi anni prima il successo interplanetario di Shining che sembrava avere detto l’ultima parola sul genere “dimore maledette”. Eppure Evil dead, pur fornendo uno spettacolo più rozzo e male interpretato, aveva riaperto la strada per altre pellicole, non solo, era, senza neppure accorgersene, il primo esponente di una nuova scuola horror, una vera new wave del genere, che avrebbe trasformato gli anni 80 nel periodo più fiorente e sanguinoso del cinema del terrore. Le varie copertine e manifesti del film ingannano lo spettatore: in una di queste un villone sullo stile del cult Ballata macabra di Dan Curtis appare minaccioso con la scritta “Sembra una casa normale… da fuori”. In realtà il film ha come scenario uno sgarruppato cottage in legno, dalle poche stanze, circondato da un bosco minaccioso. E’ l’anima exploitation del progetto che promette come spettacolo qualcosa che non ha, urlando nelle copertine tutto quello che il budget poteva solo immaginarsi. Il film fu girato nei fine settimana nel corso di un anno e mezzo, e la maggior parte degli effetti speciali e delle tecniche di ripresa del film furono improvvisate sul set e realizzate con mezzi di fortuna. Raingivitz, che firmò l’opera con lo pseudonimo di Sam Raimi, si servì per alcune riprese della shakeycam, una sorta di steadycam di sua invenzione montata su un supporto mobile, che permetteva l’effetto tremolante della macchina da presa. Lo chalet in cui fu ambientato il film era un’abitazione abbandonata che venne distrutta da un incendio poco dopo le riprese. Inoltre esso non aveva alcuna botola, per cui le sequenze con l’ingresso del seminterrato furono girate nella casa di campagna del produttore Robert Tapert mentre scene nella cantina invece vennero realizzate dentro lo scantinato dell’abitazione del regista. Sempre a causa del ridotto budget, gli attori reclutati per il film erano per la gran parte amici di Raimi e Tapert, tanto che alcune scene vennero rigirate molte volte visto che il gruppo scoppiava spesso a ridere durante i ciak.
L’invenzione primaria di Evil dead fu l’uso selvaggio della macchina da presa, il non mostrare la creatura diabolica che si impossessa dei corpi dei giovani, ma la sua visuale, la corsa folle attraverso i boschi e dentro le stanze dello chalet, creando un effetto innovativo di terrore che attraverso la soggettiva generava un clima di paura unica che nessun miliardo avrebbe potuto ricreare con effetti speciali. Si amplifica la lezione voyeuristica del meraviglioso Peeping Tom di Michael Powell: l’occhio del regista, quindi la telecamera e la sua visione, diventano il nostro punto di vista, facendoci prima tifare per i poveri ragazzi per poi farci diventare noi stessi il cattivo, il mostro che li insegue. Le regole classiche di cinema vengono sovvertite in un uso anarchico e innovativo della macchina da presa che mai prima di Evil dead è stato mai portato tanto al parossismo: il cinema e il suo sguardo annientano le barriere di set e di storia, distruggono oggetti, passano attraverso la materia per ingoiare la carne, sfaldarla, renderla quasi materia pittorica di colori acrilici, ricreando, attraverso la miserabilità di un budget pauperistico, nuove forme di linguaggio filmico che non si accontentano di urla e tagli, ma arrivano a riflettere sull’essenza stessa del cinema.
Non a caso vediamo, in una scena, un vecchio proiettore riempirsi di sangue, omaggio sì al consiglio dato da Andy Grainger, ma anche idea precisa di creare non un film sanguinoso, ma un film che sanguina, un’esperienza di terrore che parte dal cinema stesso e dai suoi classici tanto che il commento musicale (meraviglioso di Joseph Lo Duca) è quasi da film muto in contrapposizione agli orrori mostrati. Evil dead è la nouvelle vague del cinema splatter, un’opera che anticipa gli umori del cinema horror, essenziale per tessere le basi per il futuro del genere, sia una nuova carne cronenberghiana che un Demoni baviano. Si può dire quindi che se Dawn of the dead era il punto di non ritorno del cinema splatter, con il suo impegno politico camuffato da bassa exploitation, Evil dead ne è la rinascita, un cinema splatter meno politico, simbolo di un decennio, gli anni 80, di fretta consumistica, ma altamente spettacolare, pieno di effetti, capace di giocare con la bassa materia in maniera visivamente potente in una concezione di horror più di occhi che di cervello, un cinema che attinge le sue basi dalla pittura e usa storie già viste per creare nuove forme di linguaggio, l’equivalente filmica della riciclarte, dove l’immondizia o l’usato diventano materia per altra arte.
Senza falsi giri di parole Evil dead è un capolavoro, imitato, stracitato anche a distanza di più di trent’anni, ma raramente raggiunto come grandezza filmica. Il bello del film di Raimi è la capacità di appassionare, non solo di spaventare: alla fine le scene più urlate come concezione, la fuga col ponte distrutto, le frasi d’amore tra Ash e Linda, la cena prima del ritrovamento del Necronomicon, servono a farci empatizzare con questi personaggi solo abbozzati, la cui morte diventa momento dolorissimo più del loro martirio di carne e spirito.
Evil dead è il film che ogni fan del cinema horror avrebbe voluto vedere, un’orgia violenta dalla velocità di un blu tornado di Gardaland, pieno di scene fantasiose e di mostri spaventosi. Evil dead attinge la sua forza anche da paure ataviche, i boschi da fiaba ne sono un esempio, Raimi non li ripopola soltanto di nuove creature, la variante del lupo di Cappuccetto rosso, ma rende il bosco stesso un mostro senziente, con la sua essenza impalpabile, con le sue mani che diventano piante, con il suo sesso di arbusti e rami che violenta ragazze vergini, con la frase apparentemente gratuita detta da Scott all’amico “Gli alberi lo sanno Ash!”, con l’impossibilità di attraversare il bosco come in una favola scura dei fratelli Grimm.
Lo splatter fa la sua grande parte è vero e stupisce come i trucchi dell’esordiente Tom Sullivan siano tra i più inventivi visti fino ad allora nell’horror. Certo il make up è a volte posticcio, ma è il simbolo stesso di un film dal budget irrisorio, che si fa beffe dei miliardi, e riesce lo stesso con accorgimenti, invenzioni ad essere concorrenziale: come d’altronde prendere sottogamba un horror che riesce a rendere romantico uno smembramento o un finale che trasmuta la carne in una sorta di pongo malleabile? Certo molti si lamentavano delle influenze, l’Esorcista e i suoi vocioni da trans in primis, ma sfido a trovare in questo film un solo momento che sia scopiazzatura e non citazione epidermica, un po’ come il nostro Dylan Dog degli anni 80.
Tra Evil Dead e Evil dead 2 in Italia
Evil dead uscì nel 1983 in Italia come La casa per via dell’inventiva del distributore Roberto Cimpanelli che creò anche la famosa C a forma di mezzaluna della locandina nostrana. D’altronde tradurre letteralmente Evil dead come Morte malvagia sarebbe stato un bagno di sangue al botteghino, onore quindi all’inventiva italiana che nella semplicità permise al film di Raimi di incassare nel Belpaese ben tre miliardi. Certo che aspettare quasi quattro anni per La Casa 2 doveva sembrare un’eternità e perciò lo stesso Cimpanelli acquistò i diritti per un’altra casa del terrore, The house, diretta da Steve Miner e da noi uscita come Chi è sepolto in quella casa? con naturalmente la stessa C del capolavoro raimiano. Era l’inizio di un’invasione di case del cinema del terrore che avrebbe visto l’inquietante Superstition diventare La casa di Mary e una serie di immobili pieni di fantasmi prodotti in Italia. Chi è sepolto in quella casa? è un ottimo fantasy dalle venature horror, fantasioso e ben diverso, sia come registro che come resa, dal capolavoro raimiano. Innanzitutto il sangue è ridotto a poco o niente, più interesse è mostrato verso una sceneggiatura densa di umorismo senza sfociare nella cretineria, che parla di porte infradimensionali e di zombi dalla consistenza di un rimpianto passato.
Modello è senza dubbio il misconosciuto The Jar di Bruce Toscano, confuso horror che anticipava tutte queste idee, ma non sapeva sfruttarle in pieno per colpa di una regia non all’altezza e un plot troppo confusionario. Al timone però qui c’è lo Steve Miner del secondo e terzo capitolo di Venerdì 13 che presto avrebbe abbracciato la commedia pura con il bel Soul man, ma che qui ancora flirtava con l’horror, in un mix sapientemente gestito, e non senza un paio di spaventi ben assestati. A interpretare l’eroe della storia il divo televisivo William Katt, fresco fresco dal successo di Ralph supermaxieroe, e qui ottimo nel ruolo del protagonista Roger Cobb, in un cast comunque eccellente e ben assortito.
Ottimi gli effetti speciali con creature mostruose variegate, e orecchiabile i commento musicale di Harry Manfredini, veterano dei Venerdì 13. Ma se il film di Miner era ottimo, lo stesso non si può dire del seguito, La casa di Helen, diretto da uno dei due sceneggiatori del primo capitolo Ethan Wiley (l’altro era Fred Dekker), dove tutte le cose buone del film precedente vengono buttate sul demenziale in un intreccio che mischia sciaguratamente passaggi infradimensionali con trovate che si vogliono buffe, ma che risultano solo patetiche. Peccato perchè i trucchi soni sempre di alto livello, ma il film resta una delusione cocente, senza quasi nessun contatto con il prototipo. Cosa curiosa è che The house 2 venne presentato sui listini dei film in uscita nella stagione 87/88 come La casa 2, per poi essere reintitolato La casa di Helen, favore personale di Cimpanelli a De Laurentis che aveva prodotto il vero Evil dead 2 in uscita imminente.
Evil dead 2
Evil dead 2 arriva dopo l’insuccesso di Sam Raimi con la commedia I criminali più pazzi del mondo (Crimwaves), scritta dagli amici registi Ethan e Joel Coen. L’amore del regista per il demenziale, ma anche per i cartoni animati alla Tex Avery, viene percepito più che nel film d’esordio. Gli elementi sono gli stessi, tanto che il film a tratti sembra un remake camuffato, ma è l’approccio cartoonesco ad essere diverso: esemplare la scena dove Ash (Bruce Campbell) si amputa una mano e questa torna a sfotterlo in un’apoteosi di muri rotti come sagome di Willy il coyote, e sangue a geyser tanto irreale da non fare paura. De Laurentis, come detto, produce il tutto e lascia estrema libertà al regista, ma gli chiede soltanto il favore di non calcare la mano sulla violenza. La risposta di Raimi è un ni, ovvero il film è sempre estremo, ma il sangue è innaturalmente verde e il tutto è così grottesco e surreale da non generare il disgusto dello spettatore, tanto che la pellicola non otterrà neppure il vietato ai minori di 14 anni al cinema. L’impossibilità di riutilizzare le sequenze del primo film (proprietà di un altro produttore) fanno rigirare al regista una condensazione di Evil dead nei primi 15 minuti prima di dare il via alle danze di questo strano splatter comico, apripista per una serie di produzioni umoristiche che avranno la massima espressione nei lavori neozelandesi di Peter Jackson. La sceneggiatura originale pare prevedesse uno sviluppo dell’opera di quasi 3 ore con l’intro di quasi 90 minuti (!!!), ma alla fine si optò per un’ora e trenta scarsa di girato. Evil dead 2 all’epoca stupì un po’ tutti perché, pur essendo un sequel, non assomiglia per nulla al precedente. Tutto ne La casa 2 è folle, dalla violenza iperrealistica alle scene incredibili, Ash che ride insieme a delle lampade o a un cervo, la danza di Linda risorta con la testa mozzata a mo’ una bombetta, il finale medioevale, l’occhio che vola in bocca a una scream queen, creando quasi un impossibile musical all’Apprendista stregone Disney dove sono le immagini a dare il ritmo indiavolato al tutto. Non per niente Evil dead diventerà con l’andare del tempo anche uno spettacolo musicale di un certo successo, rappresentato in tutto il mondo, non indegno della tradizione del Rocky horror picture show.
Case in affitto
Per un Evil dead 3, ovvero L’armata delle tenebre, bisognerà aspettare il 1992, quindi ben sei anni, ovvio che il buon Cimpanelli, si fosse affrettato in fretta e furia a depositare il titolo in SIAE di La casa 3, ma inutilmente. Infatti il distributore Achille Manzotti era arrivato prima di lui, ma non solo, si era accaparrato anche l’esclusiva di la Casa 4, 5 e 6. Iniziò una battaglia legale che inaspettatamente vide perdere Cimpanelli, il quale con la coda tra le gambe prese il restante La casa 7 per un futuro film. La casa 3 (Ghosthouse), prodotta da Aristide Massacesi (il grandissimo Joe D’Amato) e la sua Filmirage, e diretta dal veterano Umberto Lenzi, uscì nei cinema italiani nel 1988, forte di una copertina che echeggiava il precedente La casa di Mary. Si pensò bene di girare l’opera nel Massachusetts e, grazie a un cast e dei credits completamente anglofoni (il regista si chiamò per l’occasione Humphrey Humbert), il film fu furbescamente venduto come horror americano, ottenendo anche un discreto successo. La casa 3, a parte il nome del fantasma Henrietta (come la moglie dell’archeologo di Evil dead 2), non ha spunti in comune con i due capitoli di Sam Raimi, anzi sembra più che altro rifarsi agli Amityville, soprattutto per l’idea di una casa grande e piena di orribili segreti, ben lontana dalla catapecchia dove Bruce Campbell lottava contro i demoni kandariani.
Lenzi, maestro di polizieschi anni 70, gira distrattamente, il suo horror è interpretato malissimo da attori allo sbando, gli effetti speciali sono poco speciali, e il film è di noia abissale. Si salva solo la nenia del pupazzo malvagio e una certa originalità negli omicidi, più da thriller argentiano, ma è poca cosa davvero. Meglio si va con La casa 4 (Witchcraft) diretta da un bravo Fabrizio Laurenti agli esordi con lo pseudonimo di Martin Newlin, alle prese con una storia che echeggia Hellraiser non senza una certa inventiva sia di messa in scena (le morti sono da antologia) che di originalità nell’approcciarsi ad un horror tutto sommato usa e getta. Il cast, ricco e pieno di nomi famosi all’epoca, tra i quali spicca il David Hassellhoff di Supercar e la Linda Blair de L’esorcista, riesce a conferire una certa internazionalità che il precedente di Lenzi non aveva, malgrado la location americana (anche qui si è comunque in Massachussetts). La strega, interpretata dalla diva del cinema anni 50, Hildegard Knef, ha la potenza inquietante della Bette Davis di Ballata macabra, accresciuta dalla recitazione sopra le righe dell’invecchiata attrice, a sua volta fantasma di una giovinezza ormai sfiorita. Il film è sanguinoso e di buonissima fattura (a parte alcune effetti ottici risibili), tanto da essere La casa apocrifa più di successo. Questo ringalluzzì Massaccesi che l’anno dopo buttò nei cinema La casa 5 (Beyond darkness), questa volta diretto dallo specialista Claudio Fragasso dietro lo pseudonimo abituale di Clyde Anderson.
Il risultato purtroppo è insoddisfacente, non tanto per la regia elegante, ma per una storia che inizia anche bene, ma che sfocia presto nel deja vu esorcistico a buon mercato. Alcuni momenti sono inquietanti, si veda il cigno nero o l’arrivo delle megere accompagnate dalla nebbia, ma nè le interpretazioni degli attori (a parte un gigionesco David Brandon) nè il plot (in origine pensato come sequel del precedente) sono oltre il miserabile, con un budget inadeguato anche per una produzione d’imitazione americana. Questa fu il capitolo apocrifico che incassò di meno e fece fallire il progetto de La casa 6 per la regia di Edoardo Margheriti. Come detto però uscì comunque, anche senza la sei, La casa 7, terzo segmento dei The House, con la stessa cover del primo Evil dead di Sam Raimi. Questa produzione, mediocre anch’essa, vedeva alla regia lo shooter David Blyth sostituito dopo poco dal compianto James Isaac, futuro autore di Jason X e effettista per David Cronenberg, in una produzione troppo sbilanciata per appassionare. House 3: the horror show scopiazza senza pudore il plot del contemporaneo Sotto shock di Wes Craven, senza avere la sua stessa creatività nel mettere in scena uno slasher futuristico. Dispiace vedere coinvolti in questo pasticcio il bravo Lance Heriksen e l’ottimo caratterista Brion James, ma il film vale poco o niente: mai spaventoso, spesso confuso, fa rimpiangere le case italiche più scalcagnate. Ed è tutto dire.
La saga di The house continuò con un quarto (orribile) capitolo che vedeva in scena ancora William Katt, ma stavolta si abbandonò il marchio La casa con la c a forma di falce, per un più anonimo House 4 presenze impalpabili (anche se fu annunciato col titolo Disney Chi ha ucciso Roger? intendendo il Cobb del film di Miner non il Rabbit di Zemeckis. Infatti ormai con troppe produzioni, per lo più scadenti, l’attenzione del pubblico era scemata e, soprattutto con l’uscita di almeno una decina di titoli truffa uno di seguito all’altro, si era fatta di ogni erba un fascio. Sia d’esempio il bel Dream Demon che uscì in Italia come La casa al numero 13 di Horror street e le uniche parole non scritte in lillipuzziano era La casa e il 13, creando l’illusione di avere perso almeno 6 capitoli e di assistere a La casa 13!
Tra le imitazioni più spudorate del ciclo si può segnalare il delirante Il bosco 1 di Andrea Marfori, oggetto di un culto scellerato postumo che sublima l’effettiva brutta qualità del prodotto.
La vera Casa 3: L’armata delle tenebre
Nel 1992 viene finalmente girato da Sam Raimi il terzo capitolo del suo The evil dead intitolato semplicemente Army of darkness, e il risultato è ancora diverso dai precedenti capitoli. Se la prima parte era un horror gore, la seconda un horror umoristico con sterzate violente, il terzo è un fantasy comico con sporadici elementi horror. Bruce Campbell diviene l’anima del progetto, il suo alter ego è protagonista assoluto di una vicenda cartonesca, simbolo di un americano medio che nei film scifi anni 50 dimostrava una stupidità superiore a quello dei pazzi cattivi. Arrogante, ignorante, pusillanime, vigliacco, truffatore, Ash è l’antieroe per eccellenza, parodia di un certo cinema muscolare che voleva battute ad effetto e tanta azione. L’armata delle tenebre è una specie di Mr smith va a Washinghton di Frank Capra in chiave fantastica dove il Candido voltairiano è stavolta un gran figlio di puttana che uccide demoni con fucili a canna mozza, seduce ragazze e quasi diventa imperatore di un regno senza nessun merito che non sia la codardaggine. La messa in scena è potente grazie anche al budget di 11 milioni di dollari (contro i 3, 5 del 2 e i 350000 del primo) così da permettere una grandiosa scena di battaglia tra uomini e scheletri che echeggia quella di Ray Harryhausen per Gli argonauti. Ma non solo, il ritmo, già spinto all’eccesso nel capitolo precedente, viene ancora velocizzato in un continuo di trovate riuscite, di combattimenti parossistici e omaggi al cinema passato che rendono Army of darkness un divertissement che può tranquillamente mettere insieme i gusti dello spettatore medio e del cinefilo snob.
La fine?
Bruce Campbell ha avuto nella sua vita un unico ruolo davvero di culto, quello dell’Ash della trilogia de La casa, logico che in molte sue interpretazioni recenti sia la regia My name is bruce sia il cultone Bubba ho tep, continui a reinterpretare alla fine lo stesso ruolo di smargiasso mutherfucker contro i demoni.
Sam Raimi ha cercato di allontanarsi come regista sempre più dall’horror, a parte ritorni di fiamma come il divertito Drag me to hell, ma abbracciando i generi più disparati dal western (Pronti a morire), al noir (Soldi facili), al cinecomix (i primi tre Spiderman). Il suo cinema citazionista è sempre stato fedele ai suoi principi in ogni approccio ai diversi generi, affrontati con la stessa meraviglia da fanciullino che aveva accompagnato gli esordi. L’horror per Raimi è diventato soprattutto produzioni con successi come Boogeyman e l’innamoramento sciagurato per il cinema orientale dei fratelli Pang.
Evil dead ha proseguito la sua strada attraverso i fumetti e videogame, ma del tanto vociferato quarto capitolo sembra non se ne farà nulla. E’ in produzione invece il remake diretto da Fede Alvarez, regista alla sua opera prima, ma già famoso per un cortometraggio fatto in casa su un’invasione aliena, concorrenziale con gli effetti speciali multimiliardari. Uscirà per il 2013, ma quello che sembra certo è che il miracolo Evil dead non ha bisogno di aggiornamenti o rifacimenti, era (im)perfetto già allora, e con due lire e tanta fame era riuscito non solo ad essere un capolavoro, ma a sovvertire le regole del cinema horror, e a creare dal niente milioni di altre case manco fosse un’agenzia immobiliare.
About Andrea Lanza
Si fanno molte ipotesi sulla sua genesi, tutte comunque deliranti. Quel che è certo è che ama l’horror e vive di horror, anche se molte volte ad affascinarlo sono le produzioni più becere. “Esteta del miserabile cinematografico” si autodefinisce, ma la realtà è che è sensibile a tette e sangue.