Olivier Abbou critica la dittatura politica e mediatica degli Stati Uniti ma finisce per essere dittatore dell’immaginazione del proprio pubblico.
Cinque amici sono di ritorno da un matrimonio in Canada negli Stati Uniti. Per evitare la polizia di frontiera decidono di evitare la via principale e passare da una strada secondaria che attraversa il bosco. Non ne usciranno più vivi.
È da diverso tempo che il cinema horror cerca di rinfacciare all’America una delle pagine più nere della sua storia recente; il primo a pensarci è stato Quentin Tarantino che provò a far tacere le critiche alle violenze gratuite di Hostel (film da lui prodotto) spiegando che erano ispirate a Guantanamo. Nessuno se la bevve e forse neanche il regista di Pulp Fiction ci aveva messo troppa convinzione ma in tanti pensarono che sarebbe stato fantastico girare un film che sbattesse in faccia agli Stati Uniti le nefandezze di quel campo di concentramento per sospetti terroristi in cui l’amministrazione Bush consumò buona parte del suo credito dopo l’11 settembre. In fondo gli U.S.A hanno sempre cercato di metabolizzare i propri crimini attraverso la settima arte, è la loro terapia psicanalitica preferita. Negli anni ’70 una buona fetta del cinema americano servì a superare la grave crisi interiore dovuta al Vietnam con tutte quelle storie di reduci arrabbiati e delusi che portavano la guerra in casa per farla assaggiare ai patrioti che si vergognavano di loro. A portare Guantanamo negli Stati Uniti e tentare di ritorcerlo contro le coscienze sorde e ottuse del popolo di Bush ci ha provato però un canadese, Olivier Abbou. Peccato che il suo Territories sia un film didascalico e prevedibile che si prende così sul serio da risultare quasi parodistico.
Abbiamo dei reduci che hanno servito fedelmente il proprio paese in Iraq e che poi sono stati scaricati e dimenticati, con assegni di sussistenza ridicoli, malattie prese sui campi di battaglia e tante promesse mai mantenute. Ecco quindi che i due poveracci decidono di creare una specie di campo di concentramento per i nemici dell’America e di condurci un campione di giovani progressisti abbastanza sfigati da finire nella trappola. Quando i ragazzi vengono fermati al falso posto di blocco della polizia di frontiera, per quanto lo spettatore un po’ smaliziato capisca subito che i poliziotti non sono veri e che i giovani finiranno male, si rimane con il fiato sospeso fino a quando non sarà chiaro quale tipo di inferno gli aguzzini abbiano in serbo per loro o forse solo per sincerarsi se la storia sia scontata come sembra. I carcerieri applicano gli stessi metodi sperimentati a Guantanamo ma su giovani americani di buona famiglia. Le tecniche di assedio psicologico spingono i prigionieri a confessare il falso e denunciarsi a vicenda, trasformando la storia in un trattato sulla discesa nell’inferno delle nefandezze a cui la natura umana può spingersi per sopravvivere alle situazioni estreme e forse più che mai qui viene il pensiero di come il film avrebbe potuto funzionare in mano a qualcuno meno ambizioso e presuntuoso.
Se si fosse evitato di mostrare troppo la vita disastrata dei due reduci che si assistono a vicenda come una tenera coppia gay unita da tante esperienze terribili, magari le cose sarebbero state più inquietanti. Se invece di spiegare le ragioni di tutti i personaggi, persino del detective privato che appare nell’ultima parte (si droga perché probabilmente ha perso sua figlia) si fosse lasciato immaginare qualcosa agli spettatori adesso forse parleremmo di un buon film. Abbou critica la dittatura politica e mediatica degli Stati Uniti ma finisce per essere dittatore dell’immaginazione del proprio pubblico. Vuole fare una ramanzina all’America sulla sua pessima politica estera usandole contro il suo genere cinematografico più vergognoso, il torture porn, interpretato come una stupida trippa capitalistica che nutre la perversità delle grasse membra adolescenti di un popolo annichilito da pubblicità e TV, ma fallisce su tutta la linea proprio perché vuole fare troppe cose con poco tempo, pochissimo denaro e scarso talento. A rendere il tutto ancora più caotico è la decisione di girare un film all’europea (Frontiers) ma con i fantasmi di Psycho e Shining che si aggirano dall’inizio alla fine. Da consegnare ai posteri la scena in cui uno dei due reduci racconta del gatto arruolato dai servizi segreti: vero capolavoro di sublime scemenza quasi quanto la scena del ballo dei bifolchi in Calvaire di Fabrice Du Welz.
About Ceccamea
Nato a Vetralla (VT) l'8 dicembre del 1978. Scrittore, strimpellatore di chitarra, ex-fumatore incallito. Sposato, con figli. Una di tre anni. L'altra in arrivo per il nuovo anno. Maya permettendo.