Un horror anomalo, in cui la componente reale supera quella soprannaturale, annichilendo lo spettatore con una storia amara e spietata.
Quattro ragazzi si perdono durante una gita e si ritrovano in mezzo a un bosco. Qui incontrano un altro ragazzo ferito, che gli chiede aiuto perché la sorella è rimasta imprigionata in una buca scavata nella foresta. Per i quattro comincerà un incubo senza fine.
Il film di Aharon Keshales e Navot Papushado girato un paio d’anni fa trae ispirazione dai classici horror on the road degli anni ’70 (Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi ecc.), ma se i film citati sacrificavano l’intreccio sull’altare della deriva splatter e sanguinolenta, questa pellicola israeliana prova a conciliare i due elementi, rendendoli l’uno il completamento dell’altro. Quello che succede è infatti strettamente legato alle storie che si portano dietro i protagonisti: i due amici separati da un segreto mai rivelato, la ragazza intimamente innamorata dell’amica, il poliziotto che vorrebbe ricucire il rapporto con il padre, quello che invece cerca disperatamente il perdono della moglie, i due ragazzi fuggiti di casa per vivere la propria storia d’amore, il ranger che sta per diventare padre. Insieme sembrano trovarsi sull’orlo di un baratro, costretti ad affrontare LA prova, quella che dirà una volta per tutte che direzione prenderà la loro vita, ma tutti la falliscono miseramente, cadendo vittime delle loro stesse debolezze.
Il cinismo con cui autori e registi (che sono gli stessi) affrontano la storia fa venire i brividi: mettono spietatamente a nudo la debolezza umana e trasmettono un messaggio universalmente pessimista, non privandosi però di un umorismo nero di fondo che rende ancora più amara la storia. Ciò avviene soprattutto nel finale, quando vediamo prima una famiglia ritrovarsi nello stesso punto in cui si erano persi i protagonisti, e litigare per niente, e poi quando l’uomo che ha involontariamente causato tutto, si ritrova lungo il bordo della strada a fare l’autostop, e contro l’indifferenza dei passanti si lascia andare a un “Che Paese di merda”.
Il titolo, che in italiano si potrebbe tradurre come La rabbia, dice tutto, spiega ciò a cui assisteremo, senza però privare il film della sua forza distruttiva, capace di sconvolgere e annichilire lo spettatore. Lo spettacolo che vedremo, infatti, è sbagliato, è sconcertante, è inaccettabile: un qualcosa di molto più pesante di una semplice storia dell’orrore, perché nulla fa più paura della realtà che supera la finzione.
About Marcello Gagliani Caputo
Giornalista pubblicista, scrive racconti (Finestra Segreta Vita Segreta), saggi sul cinema di genere, articoli per blog e siti di critica e informazione letterario cinematografica, e trova pure il tempo per scrivere romanzi (Il Sentiero di Rose).