“Abbiamo bisogno di sapere che quello che ci viene raccontato e i personaggi che lo popolano siano qualcosa più grande di noi“.
Per quanto conosciamo bene l’assoluta fallacità di una tale condizione, è innegabile come Drew Goddard sia l’uomo del momento: forte dell’incensatissimo Cabin in the Woods – nelle nostre sale dallo scorso 20 aprile come Quella Casa nel Bosco -, è allo stesso tempo l’autore sulla cui creatività dipenderanno in buona parte i destini del tanto chiacchierato Cloverfield 2 e del prossimo progetto sci-fi di Steven Spielberg, Robopocalypse.
Ormai la pellicola è uscita nelle sale USA da qualche mese: il tuo entusiasmo nei suoi confronti è uguale a quello degli inizi?
La prima volta che abbiamo guardato il film seduti in mezzo a un pubblico, buona parte di esso è andato fuori di testa. Tutto questo è elettrizzante, perché nè io nè Joss (Whedon, co-sceneggiatore di Cabin in the Woods) abbiamo lavorato in un’ottica di compiacimento. Abbiamo realizzato esattamente ciò che avremmo voluto quindi sì, ne sono ancora del tutto entusiasta.
Realizzare un film del genere a questo punto della tua carriera è stato quantomeno un azzardo. E non solo per l’estrema violenza della pellicola…
Ho imparato molto presto a non scegliere automaticamente la strada più semplice e questo, generalmente, confonde il pubblico. E’ successo recentemente, quando ho rifiutato l’opportunità di sceneggiare un paio di grosse serie TV perché ho preferito concentrare le mie energie su un piccolo progetto web sui vampiri ed è successo in passato, quando, dopo la proficua collaborazione con J.J. Abrams in Cloverfield, tutti davano per scontato che sarei diventato lo sceneggiatore di Fringe, la serie col maggior hype del momento. Con Cabin in the Woods è successo lo stesso: io e Joss volevamo davvero vedere cosa sarebbe successo a seguire una strada che sentivamo il bisogno di percorrere, e poco importa se non si è trattato di un progetto enorme, perché ne sono pienamente soddisfatto.
Sono in pochi gli sceneggiatori che, come te, hanno avuto la possibilità di muoversi così tanto proficuamente tra progetti cinematografici e altri per la TV. Qual’è lo stato di salute attuale dei due medium? E ti senti in qualche modo responsabile nel ritrovarti a trattare così tanto di quel materiale che entrerà giocoforza a far parte della cultura popolare?
In termine esclusivamente qualitativi, credo che manchi poco al definitivo aggancio del prodotto televisivo a quello cinematografico: mai come in questo momento le differenze sono tanto sottili. Per quanto riguarda il discorso della responsabilità, credo che se mi ci soffermassi troppo finirei per lasciarmi inibire. Sono un tipo piuttosto introverso e bisogna necessariamente crearsi una corazza in un mondo in cui qualsiasi cosa produca come scrittore viene passata in rassegna e giudicata minuziosamente da migliaia di persone, e dove può succedere che quelli che ritengo i miei lavori migliori non vengano apprezzati come altri che invece reputo qualitativamente peggiori. L’unica discriminante reale è la qualità della storia. Amo la narrazione ben prima che diventassi uno scrittore, e non potrei mai smettere di dare ascolto a quella parte di me che continua a volersi sentire raccontare belle storie. E sono fermamente convinto che il vero cuore di una storia ben scritta stia nel suo fare riferimento a degli archetipi, che è esattamente quanto abbiamo fatto con Cabin in the Woods. Abbiamo bisogno di sapere che quello che ci viene raccontato e i personaggi che lo popolano siano qualcosa più grande di noi, che rappresenti anche dei concetti astratti e assoluti in cui possiamo identificarci. Ciò che vogliamo, in fin dei conti, è un significato.
Qualche novità riguardo a Cloverfield 2?
La verità è che sono all’oscuro di tutto. Generalmente quando una pellicola come il primo Cloverfield ha un successo del genere, gli studios ti contattano immediatamente chiedendoti la disponibilità per un sequel, ma con J.J. Abrams non funziona così. Daremo un seguito al film solo nel caso in cui avremo abbastanza materiale per mantenerne intatto lo spirito originale, cioè riuscire a proporre qualcosa di davvero nuovo. Il che è difficile considerato che siamo sempre impegnati in mille altri progetti contemporaneamente.
E Robopocalypse?
Quella di scrivere un film di robot per Steven Spielberg è stata un’occasione semplicemente entusiasmante, perché fare quello che davvero ti piace è il miglior viatico possibile per dare sfogo alla propria creatività. Scrivere un film però significa anche buttarsi in una trincea e fare la guerra a un sacco di altra gente, quindi bisogna esserne fermamente convinti: la peggior condizione è quella di trovarsi persi nel bel mezzo della realizzazione di un film. La situazione tipo quando si vuole dar vita a un film è quella di non trovarsi d’accordo su nulla con persone adorabili e professionalmente validissime. In quelle situazioni è fondamentale ricordarsi dei tempi in cui guadagnavo a malapena diecimila dollari all’anno.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.