Uno dei capolavori assoluti del cinema horror: Zombi (Dawn Of The Dead), di George A. Romero, ha segnato un’epoca e creato un genere.
Nessuno zombie-movie ha più toccato vette così alte, lasciando a questo film il podio di capostipite, insieme alle altre due magnifiche pellicole della Trilogia Romeriana. Imperdibile e assoluto.
Scrivere di un film come questo, il cult assoluto “Dawn Of The Dead”, capolavoro di George A. Romero targato 1978, significa addentrarsi nei corridoi spesso insidiosi del già detto e ripetuto decine di volte, talvolta attribuendo al film significati pindarici che non erano nelle intenzioni del regista. Ci si trova di fronte a una pellicola che è un vero caposaldo del genere nonché pilastro e riferimento primario per tutti quei film che sono venuti dopo, gli innumerevoli zombie-movies che a essa si sono in qualche modo ispirati, guardandola, inevitabilmente, dal basso verso l’alto.
“Dawn Of The Dead” è il secondo capitolo della fondamentale trilogia Romeriana sui morti viventi, nonché il primo film nel quale ci si riferisce ad essi col termine “zombies”, per mezzo delle parole del personaggio di Peter, in quanto il termine non era mai stato usato nel precedente “Night Of The Living Dead “ (1968); la prima pellicola, low budget girata in bianco e nero, aveva già segnato un fortissimo punto di rottura nella scena orrorifica dell’epoca, con un forte sottotesto politico (interpretato, da critica e pubblico, in maniera ancor più incisiva di quanto lo stesso Romero in realtà intendesse), i cruenti effetti speciali di Tom Savini che diventeranno un marchio di fabbrica, e l’ introduzione di una caratteristica fondamentale dei morti viventi, fino a quel momento inedita nei classici del genere: l’antropofagia. Infatti, gli zombies che si erano già visti sullo schermo, a opera di nomi illustri quali Jacques Tourneur (“Ho Camminato Con Uno Zombie”, 1943) o in pellicole cult come “White Zombie”, del 1932, firmata da Victor Halperin e interpretata da Bela Lugosi, erano per lo più legati alla tradizione ritualistica voodoo, minacciosi ma non affamati di carne umana; in Romero, assistiamo al contagio, chi è morso si trasforma, diventa a sua volta living dead, sbrana, divora. E’ differenza fondamentale, che resterà saldamente radicata nell’immaginario collettivo e sarà presente in ogni successiva rappresentazione filmica, per mezzo della quale le inquietanti idee di morbo e contaminazione si mescolano a due paure ataviche: quella dei morti che tornano in vita e il terrore dell’istinto cannibalico.
Il trittico Romeriano, nei titoli, simboleggia l’espandersi dell’invasione, aprendosi nel 1968 con la Notte, in un film cupo dal finale che non lascia spiragli di speranza, per proseguire con quest’Alba, ancora più agghiacciante ma che porta in sé un seme di sopravvivenza per poi chiudersi, nel 1985, con “Day Of The Dead”, l’avvento del Giorno degli Zombie. In realtà, il ciclo è andato oltre, col pregevole “Land Of The Dead”, del 2005, il bellissimo e sottovalutato “Diary Of The Dead” (2007) e il più recente e finora meno riuscito “Survival Of The Dead”, uscito nel 2009. Dunque, uno spremere all’osso la figura del Morto da parte di Romero, scelta da un lato quasi obbligata, in quanto i suoi film slegati dalla tematica (e spesso di valore assai alto), hanno sovente riscontrato uno scarso successo di pubblico; un vero marchio a fuoco, dal quale il regista non è riuscito ad affrancarsi.
E’ importante notare che in Italia “Dawn Of The Dead” è uscito col fuorviante titolo di “Zombi”, che snatura la concatenazione agli altri due film e crea confusione con alcune pellicole coeve (una su tutte: “Zombi 2” di Fulci, del 1979). E’ ormai noto che esistono più versioni dell’opera, il che ha creato anche un certo caos; i cofanetti (ricordiamo le pregevoli edizioni dell’ italiana Alan Young e dell’ americana Anchor Bay) sono intervenuti a mettere un po’ d’ordine, offrendoci quattro diversi montaggi: la “George A. Romero’ s Extended Version”, integrale così come era intesa dal regista, della durata di 156 minuti; la “Director’s Cut”, da 139 minuti; la “U.S. Theatrical Version”, ridotta a 128 minuti per le sale statunitensi e, infine, quella conosciuta e distribuita in Italia, Giappone ed Europa (ad eccezione della Gran Bretagna), la “Argento’s Cut”, montata da Dario Argento, la più breve con i suoi 117 minuti.
Inutile dire che le versioni “ridotte” sono più snelle ma sottraggono al film una parte del suo valore originario: i tempi dilatatissimi dell’extended, infatti, esasperano il senso di tensione e di claustrofobia nelle sequenze all’interno del centro commerciale, vi sono più dialoghi dunque i personaggi sono ancor meglio delineati e vi sono alcune scene importanti che verranno poi tagliate negli altri montaggi (ad esempio, quella in cui un gruppo di poliziotti vuole appropriarsi dell’elicottero dei protagonisti, e nella quale le forze dell’ordine risultano ridicolizzate); tuttavia, non tolgono forza al film, sebbene l’ extended version resti ovviamente quella che rende maggiormente giustizia alla narrazione. Una delle differenze più accentuate è rintracciabile nell’incipit dell’ “Argento’s Cut”: il film si apre sul magnifico score dei Goblin, di colpo, mentre nella versione extended, ad esempio, a inizio film sono conservate le assai meno efficaci musiche originali.
Le motivazioni di tali sforbiciate sono state molteplici e diverse a seconda dei Paesi: in Francia, la censura giocò un grosso ruolo, e qui in Italia, dopo il 1990 numerose scene vennero eliminate o comunque ridotte (ad esempio l’uccisione degli zombies bambini), rendendo talvolta meno chiare le sequenze successive; causa principale delle decurtazioni fu comunque la necessità di ridurre la durata al di sotto delle due ore, per i soliti motivi di incastro di un maggior numero di proiezioni nelle sale.
Il film segna l’inizio della collaborazione tra Romero e Dario Argento: i due registi si incontrarono nel 1976, e da lì nacque un sodalizio che, dopo questo film, proseguì tra alti e bassi, rivedendoli insieme per “Due Occhi Diabolici” (1990), pellicola della quale curarono un episodio a testa, entrambi tratti da Edgar Allan Poe.
“Dawn Of The Dead” è prodotto, tra gli altri, da Claudio Argento, ed è stato scritto da Romero con la collaborazione del regista nostrano, accreditato come “script consultant”; dunque, il ruolo di Argento fu forte e determinante nella genesi di questo film.
Un discorso a parte meritano le magnifiche musiche composte dai Goblin (che nei credits compaiono come: “Goblin in collaboration with Dario Argento”): il film era già stato distribuito in alcune sale statunitensi quando Romero ascoltò ciò che i musicisti avevano composto, e ne rimase stregato. Fece ritirare le copie già diffuse, e sostituì immediatamente lo score originario (piatto e banale), con quello che a tutt’oggi resta una delle punte massime delle soundtrack Gobliniane: ipnotico, inesorabile come il lento incedere dei morti viventi, epico, è complementare al film, donandogli quel “valore aggiunto” di potenza non inferiore al celeberrimo tema di “Profondo Rosso”, per quanto il “Dawn Of The Dead theme” sia rimasto assai meno nell’immaginario collettivo poiché più rarefatto e meno ossessivo. Le sequenze delle orde di zombies al di fuori dello shopping mall, riprese dall’alto, se viste con l’accompagnamento delle musiche originali, perdono molto del loro potere evocativo, per diventare invece veri e propri incubi surreali da pelle d’oca sulle note agonizzanti dei musicisti argentiani.
Dunque, l’ esatto contrario di quanto accadde per “Martin”, opera di Romero del 1976, che venne successivamente ri-montata da Argento per il mercato italiano aggiungendovi le musiche dei Goblin: si rivelò un errore, poiché la pellicola ne risultò in parte stravolta, con un taglio di 10 minuti abbondanti e la colonna sonora che pareva posticcia e fuori luogo. Caldamente consigliato, in questo caso, il Director’ s Cut.
“Dawn Of Dead” può essere considerato, innanzitutto, un film sul Caos: lo stravolgimento assoluto dell’ ordine delle cose causato dall’ infrangersi della prima Legge Universale, ossia la Morte. “Quando i morti camminano, signori, bisogna smettere di uccidere. Altrimenti si perde la guerra.”, queste le parole di un anziano prete che Roger e Peter, due dei protagonisti, incontrano durante l’ irruzione in un edificio invaso dai living dead, in cui essi sono tenuti in uno scantinato invece che consegnati alla Guardia Nazionale (così come imporrebbe la Legge Marziale entrata in vigore), in segno di un ostinato rispetto per la morte.
Non è un caso che la narrazione si apra all’interno di una stazione televisiva, nella più totale confusione, nel corso di una trasmissione d’ emergenza; ci si focalizza dunque, e da subito, sull’importanza dei media, sul loro potere che, in questo caso, è non solo impotenza ma anche cinica ricerca dell’audience a ogni costo: è grottesco e risibile il direttore di rete che si ostina a voler trasmettere i dati sui campi di rifugio, sebbene non aggiornati, purché gli spettatori “non cambino canale”. C’è un’apocalisse in atto ma l’importante è che non si cambi canale. Romero riesce a essere feroce con un dettaglio, un accenno, sussurrando senza dover urlare, poiché non ne ha bisogno. Nel corso del film, il mezzo televisivo continua a essere presente, sebbene le trasmissioni siano ovviamente sempre più diradate, ma rappresenta, per i quattro protagonisti rinchiusi all’interno del centro commerciale, l’unica voce dal mondo esterno; ed è voce che spreca il suo fiato prezioso in dibattiti inutili nel corso di risse in diretta, con “esperti” che dichiarano la necessità di sterminare gli zombies mettendo da parte i propri sentimenti umani, poiché pur se ci si trova di fronte al cadavere deambulante della propria madre o del proprio fratello ovviamente “non sono più ciò che sembrano”. Tali teorie vengono attaccate con violenza e questi personaggi rischiano il linciaggio: l’umanità rifiuta di accettare ciò che sta accadendo, lo considera assurdo, si aggrappa disperatamente al ricordo della propria normalità.
Emblematica, in questo senso, è la sequenza dell’aggressione di Peter da parte di due bambini zombies: egli spara, con sofferenza evidente, per istinto di sopravvivenza; i suoi occhi vedono ancora dei bambini, anche se in realtà non sono più tali, bensì “mostri”, ma ciò sottolinea la difficoltà nello sganciarsi dal proprio essere individui senzienti, anche a costo della propria auto-conservazione.
L’emotività diventa follia ma ciò è pienamente condivisibile, così come, d’altro canto, è comprensibile il raziocinio di chi asserisce la necessità di salvaguardarsi. Romero non prende una vera e propria posizione, guarda il tutto con un certo distacco e una perenne ironia: fuori il mondo sta finendo e tutto ciò che l’ uomo riesce a fare è aggredirsi a vicenda in uno studio televisivo.
Il lavoro sui personaggi è assai importante, e non comune nel genere horror; ciò è più evidente nel montaggio extended, dove maggiore è lo spazio dedicato ai dialoghi e dunque all’interazione tra i quattro protagonisti principali, che possiamo suddividere in due coppie: Fran (Gaylen Ross), impiegata nella stazione televisiva che abbiamo visto a inizio film, e Stephen (David Emge), il suo compagno che organizza la fuga in elicottero. Egli coinvolge l’ amico Roger (Scott H. Reiniger), membro del corpo speciale SWAT che porta con sé l’amico e compagno d’arma Peter (Ken Foree). Ovviamente, due tipologie relazionali diverse ma ugualmente forti: da un lato, il legame sentimentale, dall’altro, l’amicizia fraterna e il cameratismo. Si sarebbe quasi tentati di leggere un sottotesto omosessuale nel rapporto Roger/Peter ma si eviterà di farlo, poiché sarebbero voli pindarici eccessivi e soprattutto fuori luogo, anche se tale istinto potrebbe nascere dalla ben conosciuta scarsa simpatia di Romero per il militarismo, dunque una stilettata ironica di questo tipo, vista l’ omofobia imperante nell’esercito, non stupirebbe.
Il centro commerciale è il cuore pulsante del film, la location primaria, il luogo-rifugio dei protagonisti in una città, Philadelphia, ormai quasi del tutto popolata da morti viventi e dalla Morte. Il complesso di negozi nel quale hanno avuto luogo le riprese si trova in realtà a Monroeville, in Pennsylvania e all’epoca era il più grande shopping mall degli Stati Uniti; gli shootings durarono circa quattro mesi, nell’inverno tra il 1977 e il 1978, durante gli orari di chiusura del Monroe Mall dunque nel corso della notte. L’extended version, come già si diceva, meglio di ogni altra rende l’idea dell’ esasperato senso di assedio, della tensione interminabile che viene accentuata, e non diminuita come si sarebbe portati a pensare, dai tempi dilatati all’ estremo. Questa stasi temporale crea nello spettatore un’ identificazione completa con i protagonisti, un senso di logorante attesa, di claustrofobia schiacciante che non lascia scampo.
Lo spazio a disposizione dei quattro personaggi è enorme ma al tempo stesso minuscolo poiché è tutto il loro mondo, nel quale non sono mai al sicuro, in quanto i living dead entrano a più riprese e sono innumerevoli: davanti alle porte del grande magazzino, perenni orde di morti viventi percuotono incessantemente le vetrate, nel disperato tentativo di sfondarle. La minaccia è dunque onnipresente e ossessiva.
Arriviamo qui a un punto cruciale del film, sul quale si è lungamente (forse anche troppo), dibattuto: la feroce e impietosa critica al consumismo americano. La chiave sta in un dialogo tra i quattro personaggi, che dall’ alto di una balconata osservano ciò che accade al di sotto di loro; Stephen afferma che gli zombies sono lì per dare la caccia a loro ma Peter interviene dicendo che non sono loro ciò che cercano, bensì quel posto. Non ne conoscono il motivo, ma in qualche modo ricordano, ricordano che vogliono stare lì.
Era il 1978 e Romero aveva già profetizzato gli anni a venire; negli U.S.A, i centri commerciali e il relativo consumismo sfrenato a essi legato erano già una realtà, da noi lo sarebbero diventati in un futuro non troppo prossimo. E’ inevitabile dunque non provare un brivido davanti a parole come quelle, e non ripensare a questo film ogni volta che ci si reca in uno di questi “templi dello shopping” , davanti a persone che passano di fronte alle vetrine attraversandole con lo sguardo, camminando lente, quasi fossero lievemente lobotomizzate, divorando cibo e acquistando oggetti inutili spinti da un automatismo e non da una ricerca di piacere. Zombies, contagiati dal consumismo. C’è una forte e amara ironia nel contrasto tra l’inutile opulenza che circonda i personaggi, e la morte che li attornia in ogni dove. Tutto è inutile (tranne il cibo e le armi), anche il denaro (per quanto lo prendano ugualmente, con uno scaramantico “non si sa mai”), in un mondo che si sta estinguendo, che è letteralmente divorato da cadaveri.
I quattro cercano di adattarsi alla loro prigionia, con momenti ludici nei quali, in particolare nel personaggio di Roger, emergono dei lati infantili, scorrazzando in modo sfrenato per i reparti, giocando (anche in modo macabro, sparando sugli zombies come in un videogame) , concedendosi cene “di lusso” oppure restando per ore in un salone di bellezza. Tutto ciò appare tristemente inutile ma rappresenta un voler ritrovare una normalità che non c’è più, ed è anche occasione, per Romero, di presentarci in modo completo i protagonisti.
Fran è l’unica donna, e soffre dell’atteggiamento protettivo dei tre uomini: anche lei vuole essere parte attiva, ed entrare in campo a combattere. Insiste nel voler imparare a pilotare l’elicottero poiché è realista, Stephen potrebbe non esserci più, da un giorno all’altro. Quando scopre di essere incinta, non vuole essere trattata come se fosse un ‘invalida; la sua gravidanza è ovviamente significativa, non solo nell’essere speranza di una nuova vita in un mondo allo sfascio ma anche nel rischio che essa comporta in una situazione simile. Fu proprio l’ attrice Gaylen Ross a voler dare un’impronta forte al proprio ruolo; quando Romero le chiese di urlare durante una scena, lei rifiutò fermamente, in quanto avrebbe indebolito il personaggio, e il regista non osò più avanzare tale richiesta.
Stephen è il più chiuso, quello che più lentamente si amalgama nel gruppo. Anche lui, come vedremo, riserverà delle sorprese.
Roger è la testa calda, colui che incautamente sfida gli zombies, il tipico uomo che si sente indistruttibile: pagherà caro il prezzo dei suoi atteggiamenti da supereroe.
Peter può essere considerato, insieme a Fran, il personaggio principale: intelligente e riflessivo, non a caso le frasi più importanti pronunciate nel film vengono riservate a lui. La celeberrima “Quando non ci sarà più posto all’Inferno, i morti cammineranno sulla Terra” è detta proprio da Peter, parlando del nonno, prete a Trinidad, che durante la sua infanzia gli raccontava delle pratiche voodoo. Dunque, si fa solo un brevissimo accenno a uno dei leit motifs delle pellicole di prima generazione (i già citati film di Halperin e Tourneur), che legavano il morto vivente alla tradizione in particolar modo Haitiana, spesso ambientando le storie proprio in quei luoghi, in modo da creare una sorta di rassicurante distanza tra il “nostro” mondo e civiltà a noi non vicine.
“Dawn Of The Dead” è sotteso da una notevole vena ironica, riscontrabile in diversi punti: si gioca molto per contrasti, ad esempio nell’accompagnare scene cruente con le risibili musichette da centro commerciale, trovata che accentua la ferocia di ciò che abbiamo di fronte piuttosto che stemperarla ma comunque riuscendo, al tempo stesso, a sdrammatizzarla ad arte. Era chiaro intento di Romero dare un tono più fumettistico a questo film rispetto al precedente “Night Of The Living Dead”, ben più realistico e terrificante; l’uso di sangue finto dalle tonalità fluorescenti, cosa di cui Tom Savini era assai insoddisfatto, fu invece ben visto dal regista, poiché accentuava l’aspetto visivo da comic book che era esattamente ciò che voleva conferire all’opera.
L’ isolamento dei quattro protagonisti viene interrotto dall’irruzione di una gang di bikers razziatori, tra i quali troviamo proprio Savini, che indossano elmetti da nazisti e si comportano in modo assolutamente idiota nonché a dir poco anti-strategico verso i morti viventi: le sequenze sono inizialmente sottolineate da musiche fortemente ironiche (“Arrivano I Nostri”), e si sconfina nel grottesco quando i teppisti lanciano delle torte in faccia agli zombies (immancabile lo score delle comiche anni ’20); grottesco, ma mai ridicolo, poiché Romero riesce sempre a tenere perfettamente in equilibrio i registri.
Interessante la reazione di Stephen, fortemente “territoriale”: “questo posto è nostro, l’ abbiamo preso noi, è nostro”, e la sua rabbia è tale da superare la cautela e spingerlo ad uscire allo scoperto. Ora gli invasori più pericolosi, i veri nemici da cui guardarsi non sono i morti viventi, bensì altri umani; la lotta per la sopravvivenza fa emergere gli istinti primordiali dell’uomo, che in situazioni ordinarie resterebbero sepolti. Si ritorna dunque a una sorta di primitiva guerra tribale per il possesso di un luogo, e non è un caso che questo tipo di pulsione arrivi dal personaggio fino a quel momento più razionale e meno incline a comportamenti irruenti: è la dimostrazione di come il raziocinio crolli in situazioni estreme.
Il film si conclude lasciandoci in un primo tempo spiazzati , per poi tenere acceso un barlume di speranza, ma con un senso di indeterminatezza; dunque, è ben lungi dall’essere consolatorio. E’ sopravvivenza che potrebbe durare lo spazio di pochi minuti così come di lunghi mesi, o anni, non ci è dato saperlo: anche in questo sta la sua forza, nel dubbio in cui lascia lo spettatore, che si trova di fronte ad una conclusione non negativa ma sempre vista nell’ottica di un mondo in cui gli umani si contano sulle dita di una mano e dove la minaccia incombe senza possibilità di tregua.
In quest’ Apocalisse, la Morte non è la fine dunque non dà pace: il semplice morso da parte di uno zombie porta inesorabilmente al contagio, alla trasformazione, che avviene nell’arco di alcune ore ed è preceduta da un’ agonia, durante la quale si è consapevoli di ciò che si diventerà: cadaveri che camminano incessantemente, in cerca di carne umana, spinti solo dall’istinto, e non dalla ragione, esseri che di umano non hanno più nulla. L’ Uomo non vuole diventare così, rifiuta quella condizione, preferendo una morte immediata ed indolore.
Esiste un finale alternativo della pellicola, una chiusa assai più cupa e pessimistica, sebbene vi siano state parecchie controversie in merito nel corso degli anni: alcuni componenti della crew, tra cui Tom Savini, hanno sempre sostenuto che tali scene fossero effettivamente state girate, mentre Romero ha spesso asserito il contrario. Nel documentario “Document Of The Dead”, realizzato durante le riprese del film ed edito su alcune versioni del dvd, il regista ammette di aver effettuato lo shooting della sequenza alternativa ma di non averlo mai completato; dunque, questo finale non è visibile in nessun formato.
Il budget di “Dawn Of The Dead” fu, ufficialmente, di un milione e mezzo di dollari. In realtà, la cifra si è rivelata essere assai più bassa, ossia 500.000 dollari, e venne “gonfiata” per i compratori stranieri, questo per ammissione del produttore Richard P. Rubinstein nel commento audio contenuto in uno dei dischi della “Ultimate Edition” edita dalla Anchor Bay. La necessità di risparmiare portò a coinvolgere amici e parenti come comparse, e a non poter ingaggiare stuntman professionisti oltre a quelli impiegati nelle scene automobilistiche: dunque, il “jolly” Tom Savini e il suo assistente Taso N. Stavrakis si improvvisarono stunts, con risultati non sempre impeccabili. Inoltre, nelle scene in esterni in cui vediamo soldati, cacciatori e squadre di emergenza sparare contro gli zombies, furono impiegati membri della Guardia Nazionale, delle forze dell’ordine e cacciatori del luogo che si prestarono volontariamente e senza compenso.
Dal punto di vista tecnico, fondamentale è il ruolo degli special fx del grande make up artist: effetti spesso improvvisati sul momento, viste le difficoltà economiche appena menzionate. I volti degli zombies risultano bluastri poiché l’artista scelse il grigio, ossia la medesima tonalità impiegata per “Night Of The Living Dead” (che essendo in bianco e nero ovviamente non presentava problemi di colore), e Savini in seguito riconobbe di aver commesso un grosso errore. Tuttavia, il lavoro non si concentrò tanto sulla zona facciale bensì su quelle corporee e sugli effetti splatter e gruesome: le scene di morsi, dettagliate e riprese da vicino, sono estremamente realistiche e raccapriccianti. Il divorare, da parte degli zombies, è un macabro banchettare cannibalico che spinge lo spettatore a coprirsi gli occhi per non guardare. Dunque, ciò entra in conflitto con l’aspetto ironico e fumettistico dell’opera, poiché le scene splatter provocano una reale repulsione e sono magnificamente efficaci. Poco importa se il sangue è palesemente finto: vedere un essere antropomorfo che stacca brandelli di carne dal corpo di un umano provoca in noi un senso di vero orrore, così come proviamo disgusto nel vedere gli zombies banchettare con budella, nonostante la consapevolezza che non siano umane bensì prese dal macellaio dietro l’ angolo. In quel momento però, il film ci assorbe completamente, la magia dello schermo ci tira dentro e la maestria di Savini completa perfettamente il compito.
Ecco perché ora ci si indigna per il CGI: artisti come questi non stanno più avendo lo spazio che meritano, messi in un angolo da effetti asettici elaborati al computer e finti come i Rolex delle bancarelle. Nostalgia retorica? Può darsi, ma questo era il cinema horror che aveva un valore. Ovviamente, c’è anche l’ altro lato della medaglia: il trucco richiedeva circa tre ore di lavoro, e molte comparse si sentirono male per via delle sostanze utilizzate. Furono impiegati dei veri mutilati per interpretare alcuni zombies, uno è particolarmente visibile in una delle scene nel condominio.
Inutile dire che la censura non tacque davanti a un film come questo: l’MPAA tentò di imporre il rating “X” alla pellicola in caso non fossero stati effettuati dei tagli, limite censorio usualmente riservato ai film pornografici e che corrisponde al nostro “vietato ai minori di 18 anni”: Romero si oppose categoricamente sia alle sforbiciate che all “X rating”, questo a causa della sua personale avversione verso il genere a luci rosse. Riuscì a convincere i distributori a non attribuire divieti al film, inserendo tuttavia nei trailers e nelle comunicazioni pubblicitarie dei disclaimers che preannunciavano la non ammissione in sala per gli spettatori al di sotto dei 17 anni di età, a causa dei contenuti particolarmente violenti.
“Dawn Of The Dead” è considerato, a pieno merito, uno dei capolavori horror della storia del cinema, e forse il più bello tra gli horror contemporanei: dopo lo stupefacente esordio con “Night Of The Living Dead”, vero spartiacque nella scena orrorifica, Romero realizzò un film ancora più potente, esaltante, dai sottotesti forti e variegati ma soprattutto, capostipite di un genere, lo zombie-movie (seppur già nato col film precedente), che ha visto negli anni innumerevoli imitazioni, nessuna delle quali è mai ovviamente riuscita ad arrivare ai vertici non solo di questa pellicola, ma dell’ intera trilogia. George A. Romero ha legato il suo nome ai morti viventi, sia in positivo che, talvolta, in negativo, poiché non si affrancherà mai dai suoi cadaveri antropofagi: ma i suoi zombies, sono quelli veri, che resteranno per sempre nel nostro immaginario col loro passo lento e la loro fame insaziabile. Lunga vita al Maestro dunque, e ai suoi Morti divoratori di vita.
About Chiara Pani
Conosciuta anche come Araknex, tesse inesorabile la sua tela, nutrendosi maniacalmente di horror,musica goth e industrial e saggi di criminologia. Odia la luce del sole e si mormora che possa neutralizzarla, ma l’ interessata smentisce, forse per non rendere noto il suo unico punto debole. L’ horror è per lei territorio ideale, culla nella quale si rifugia, in fuga da un orripilante mondo reale. Degna rappresentante della specie Vedova Nera, è però fervente animalista, unico tratto che la rende (quasi) umana. Avvicinatevi a vostro rischio.