Cosa succede quando un bestselling seriale mette mano al più celebre romanzo gotico di tutti i tempi? Che fine fa l’unheimlich, il perturbante come categoria base dell’orrore e del fantastico, nell’era della sua riproducibilità crossmediale?
Inghilterra, ovvero la Vecchissima Europa, 1818: Mary Shelley, diciannove anni, pubblica per la prima volta Frankenstein, o il moderno Prometeo. L’opera nasce come corollario di un contest tra ghost novel-addicted, forse uno dei più famosi e meglio frequentati (gente come Byron e Polidori) della storia della letteratura. Un contest dove Mary Shelley è la sola a non trovare l’ispirazione per una storia di spettri. Finché, col calare della notte, non viene tormentata da un incubo vivido e scioccante. Uno studente di medicina giace genuflesso, tra trepidazione e orrore, al cospetto della creatura che ha lui stesso assemblato dal nulla. Una vita privata del calore della creazione divina, ma che pure si muove, da un fremito, vitale, attraversata. Al suo risveglio la giovane fa sbocciare l’intuizione del sogno in un abbozzo di trama.
La creatura viene abbandonata al suo destino da colui che l’ha fatta. Tornerà per chiedere ragione della sua esistenza al padre e, per estensione, all’intera umanità. Umanità che si dimostrerà incapace di accogliere l’abnorme figliol prodigo venuto a bussare alla sua porta. Su consiglio del marito Mary espande la novella in un’opera compiuta. Sebbene male accolto dalla critica, Frankenstein strega il pubblico del suo tempo e quello dei due secoli a venire. Un successo senza precedenti, pubblicato inizialmente sotto pseudonimo per tenere nascosto il primo disturbante segreto, il sesso dell’autore. Una donna che dimostra grande padronanza della lingua e uno stile ineccepibile, entrambi messi al servizio del più impresentabile dei generi letterari. Unendo romanzo epistolare e trattato filosofico-moraleggiante, muovendosi tra le ansie per la nascita della società di massa e i pericoli della dittatura del pensiero razionale e scientifico, la Shelley assembla (proprio come il suo scienziato/creatore Victor Frankenstein) la perfetta metafora del conturbante nell’era moderna. Il suo Prometeo (il “mostro” di Frankenstein e, per metonimia, lui stesso “Frankenstein”) porta luce su tutto ciò che era destinato a rimanere in ombra (per Schelling è dunque la definizione stessa di unheimlich), offre abbaglianti flashforward del ventunesimo secolo.
Quando Dean Koontz mette mano al capolavoro di Mary Shelley è consapevole di salire sulle spalle di un gigante attraverso una scala mobile. Origine di una miriade di rivisitazioni il romanzo conserva, persino nelle più spinte ridefinizioni parodistiche, una carica destabilizzante senza pari. Impossibile disinnescare in chiave comica tutti i livelli a cui agisce l’opera della Shelley, almeno quanto riscrivere drammaticamente i protagonisti della storia senza sentire il peso della maschera in cui li ha trasformati la cultura popolare. L’idea di un Dean Koontz’s Frankenstein viene sviluppata nell’ottica di un prodotto televisivo seriale, un pilot di sessanta minuti che inaugurerà un serial per Usa Network. Koontz è un gigante della narrativa horror-thriller (paragonabile negli Usa a Stephen King), nel progetto viene coinvolto anche Martin Scorsese e tutto sembra portare a un kolossal per il piccolo schermo, con uno script che arriva a toccare due ore di durata. Dissapori con la rete spingono alla defezione Koontz che continua, però, a coltivare il progetto sotto forma di romanzo. Con la collaborazione (definita da Koontz inusuale per i propri standard creativi e non sempre felice) di Kevin J. Anderson ed Ed Gorman Dean Koontz’s Frankenstein vede la luce nel 2005 in due volumi: Prodigal Son e City of Nights. Ne nascerà una vera e propria serie (nonché una graphic novel, da cui sono tratte le illustrazioni di Helios e Deaucalion inserite più avanti) , proseguita con Dead or Alive (2009), Lost souls (2010) e The dead town (2011), firmati solo da Koontz.
Un’operazione che nasce, al contrario di quella originale, sotto i miglior auspici commerciali. Tocca a Koontz, dunque, ricreare intorno all’opera un po’ dell’aura mitologica del romanzo ispiratore, a partire dalla sua genesi. Nell’introduzione all’edizione in lingua inglese del libro (che può essere letta sul sito www.deankoontz.com) racconta il primo incontro con il mostro della Shelley. Dean ha solo undici anni, la creatura ha le indimenticabili sembianze di Boris Karloff. Lo scrittore in erba capisce al primo fotogramma: sarà il suo incubo peggiore. «Ho continuato ad avere incubi a tema Frankenstein fino ai trent’anni, un paio di volte all’anno, con grida nel sonno e risvegli in un bagno di sudore (…) quando i sogni su Frankenstein si sono interrotti ho smesso di avere incubi in generale e, per molti anni, il mio sonno è stato indisturbato». Un pungolo onirico che sfocia nel desiderio di riadattare la leggenda di Frankenstein ai nostri tempi, rivisitando le paure del diciannovesimo secolo nell’ottica degli orrori del ventesimo e del ventunesimo. «Viviamo in un’era tracotante – scrive ancora Koontz nell’introduzione – dove gli uomini politici immaginano se stessi come messia e molti tra gli scienziati discutono senza remore dei loro sogni di creare una società post-umana di superuomini progettati dall’ingegneria genetica, ignari che, come le menti venute prima di loro, non hanno lasciato altra eredità se non morte, distruzione e disperazione».
Da queste premesse si sviluppa la nuova avventura dello scienziato Victor Frankenstein, che si nasconde negli Usa fingendosi ricco filantropo, e del suo “mostro”, costretto per nascita a un’esistenza lunga e raminga, senza amore e senza scopo. Riassumendo in un sol uomo l’ossessione eugenetica nazista, il mito del controllo di ogni sfera, persino quella più privata, del socialismo reale e la protervia scientista dei nostri giorni Victor Frankenstein è sopravvissuto per due secoli, testando su se stesso gli esperimenti per il superamento della morte goffamente iniziati con la sua prima creatura. Ha bloccato il proprio orologio biologico, ha migliorato la procedura per creare la vita fino a realizzare un nuovo esercito di uomini perfetti, una “nuova razza” che si sostituirà al genere umano. Giovane e bello, si fa chiamare Helios (come la divinità greca che trascina il cocchio del sole) e dalle segrete del suo laboratorio-fortezza di New Orleans (la più europea delle metropoli americane) farà sorgere un’era di progresso senza fine. L’unico in grado di fermarlo è il suo primo figlio negletto. La creatura ha nome Deucalion, come il figlio del titano Prometeo che guidò l’arca degli animali attraverso il diluvio universale. Un mitologico creatore (anche lui!) che per volere divino fece rinascere il genere umano da semplici massi di pietra. Anche nel mondo “reale” Deucalion è l’argine al genocidio degli uomini programmato da Victor Helios. Nascosto ai margini della società, tra carrozzoni per freaks e monasteri tibetani, Deucalion è sopravvissuto al padre compiendo all’inverso la sua parabola. «Victor era un uomo, ma ha fatto di sé un mostro. Io ero un mostro, ma ora mi sento così umano».
Nell’inversione, simmetrica e perfettamente equivalente, tra creatura e creatore, umano e non umano il Frankenstein di Koontz imbocca con entusiasmo, ma senza possibilità di ritorno, la via dell’allegoria a chiave. Che a livello profondo inchioda l’opera alla tesi sottostante (“quella di Frankenstein è una metafora sulla caduta delle utopie”) e nelle linee narrative di superficie riproduce all’infinito la chiave in personaggi-metafora senza profondità. Victor, che in duecento anni sulla terra non si è evoluto neanche un po’, è un cattivo esageratamente cattivo. La sua crudeltà è particolareggiata, reiterata, noiosissima. Più diffusamente ce ne parlano più finiamo per disinteressarcene. Allo stesso modo Deucalion è un po’ troppo. Troppo eroico, troppo stoico, troppo saggio. Esageratamente fico. Viene da chiedersi perché per duecento anni abbia perso tempo invece di fare il supereroe h24. Entrambi sono talmente ingombranti da avviluppare il resto dei personaggi, a cominciare dalla coppia di investigatori che restano impigliati nel loro scontro epocale. Carson O’ Connor e Michael Maddison incontrano Deucalion dando la caccia a un serial killer ribattezzato “Il chirurgo”. Sono intelligenti, onesti, competenti. Sbirri che credono nel proprio ruolo in un mondo dove a nessuno importa di nessuno. Lei è tosta, problematica, incline all’uso del terzo occhio. Lui è schiavo dell’umorismo, fascinosamente trasandato e portato al materialismo. Sono ovviamente innamorati l’uno dell’altra, ma non si sono (ancora) rivelati. Hanno idealmente tenuto banco in una miriade di thriller, sulla carta, in tv e al cinema, e ora si trovano niente meno che alle prese con la più famosa icona horror di tutti i tempi.
Peccato che sfugga, al lettore e, cosa più grave, persino all’autore, la ragione scatenante di questo connubio. Koontz si muove su un terreno da lui ben esplorato, con un approccio, quello del mix tra suspence e terrore, nero e giallo, che gli è assolutamente congeniale. Eppure non (s)muove nulla. Non c’è nel suo Frankenstein nulla di conturbante e la mancanza di brivido viene acuita e non coperta dall’innesto con temi, tempi e topos del thriller. La caccia al Chirurgo va avanti col pilota automatico, spalmata tra spiegoni investigativi e sospensioni di incredulità che funzionano solo perché obbligate a funzionare. D’altra parte il punto di vista del killer è un concentrato di situazioni abusate, dal collezionismo di parti anatomiche all’ossessione per gli esfolianti alla placenta stile Patrick Bateman. Nemmeno la scoperta di un secondo assassino regala qualche brivido. In un romanzo incentrato sul tema della nemesi tutti, persino gli organi interni, hanno il loro doppio. Il che, alla lunga, stanca parecchio. Come se su due linee narrative orizzontali, destinate a non incontrarsi mai fossero state annodate a forza e decorate, per nascondere il tutto da un’infinità di ghirigori. In che consistono questi ghirigori? Nelle citazioni, ad esempio. Tante, tantissime, pure divertenti (vedi gli omaggi a La famiglia Addams). Eppure tutte prevedibili, tanto quelle pop che quelle relative all’opera originale e al repertorio gotico classico. O perlomeno tutte disseminate per essere colte senza sforzo e nel dubbio, spiegate all’interno dei dialoghi. E le citazioni sono come le barzellette, non si spiegano mai. Se ben fatte funzionano in ogni caso. Il lettore competente ne gode il significato meta testuale, quello meno esperto può apprezzarne in ogni caso la buona fattura, la gradevolezza, l’ironia etc. etc.
Il che ci porta a un interrogativo. Il Koontz di Frankenstein è un autore (stimolante e con giuste aspirazioni creative e intellettuali) che prende, semplicemente, una cantonata o è uno smaliziato autore di bestseller che ha cambiato traiettoria? Disattende il suo pubblico più fedele o lo sacrifica per raggiungere un’audience più vasta? Una in grado di rispondere all’attrazione di un’icona come Frankenstein (chi non conosce Frankenstein?), ma priva del bagaglio di competenze dei fan abituali. Generalista più che di genere. Un pubblico che va guidato, gratificato con canovacci che può riconoscere e leggere, ma allo stesso tempo solleticato con rimandi che lo facciano sentire un gradino sopra la media. Lettori pronti a cimentarsi col soprannaturale, ma a patto che sia in qualche modo predigerito dall’autore. Un lettore che non vuole le complesse argomentazioni della creatura di Shelley ma si compiace degli aforismi a effetto di Deucalion. Che arriva con i motori di ricerca dove l’esperto di genere si muoveva grazie alla sedimentazione di letture. Ma poi, questo genere di lettore-esperto esiste ancora? Nell’attesa di mettere queste considerazioni alla prova del nove, con la pubblicazione, prevista per maggio, della seconda libro del Dean Koontz’s Frankenstein, giriamo ai lettori di Horror.it la questione. Lo facciamo attraverso tre piccole domande a risposta multipla. Vince chi non utilizza Google e Wikipedia.
1) La quarta vittima del Chirurgo si chiama Caroline Beaufort. Un personaggio che nell’opera originale della Shelley è
a) la figlia di Victor
b) la sorella di Victor
c) la madre di Victor
2) La quinta vittima porta, invece, il nome di Elizabeth Lavenza, ovvero, nella versione di Shelley, cugina e quindi consorte di Victor. Quale attrice non ne ha mai vestito i panni al cinema?
a) Madeline Khan
b) Elsa Lanchester
c) Elena Bonham Carter
3) Il personaggio di Karloff rende omaggio all’attore Boris Karloff. Con quale di questi registi non ha mai lavorato?
a) Roger Corman
b) John Ford
c) Mario Bava
(Soluzioni: 1) c) La madre morta di scarlattina, contagiata da Elizabeth ; 2) a) & b) Elsa Lanchester è, infatti, La moglie di Frankenstein nel film omonimo, inteso come la creatura, non il creatore, la cui compagna era interpretata da Valerie Hobson, mentre Madeline khan è Elizabeth, fidanzata del discendente di Victor, Frederick in Frankenstein Junior 3) Nessuna delle tre. Ha lavorato con Corman in I maghi del terrore (1963), con Ford in La pattuglia sperduta (1934) con Bava in I tre volti della paura (1962)
About SelenePascarella
Selene Pascarella è nata a Taranto nel 1977. Si è laureata alla Sapienza di Roma 23 anni dopo, con un tesi dedicata a Mario Bava, Lucio Fulci e i maestri dello spaghetti horror dal titolo "Estetiche di morte nel cinema dell'orrore e del fantastico".
Giornalista per professione e per vocazione si occupa di cinema, tv, narrativa di genere e cronaca nera. Nel 2011 ha pubblicato, assieme a Danilo Arona e Giuliano Santoro, il saggio "L'alba degli zombie. Voci dall'apocalisse: il cinema di George Romero" (Gragoyle). Tra il 2012 e il 2013, Maya permettendo, ha curato il format 2.0 DiarioZ_Italia per Multiplayer.it.
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