Dopo un terzo capitolo dal fiato cortissimo tutto lasciava intendere che la serie fosse arrivata al proprio canto del cigno.
Dopo secoli il mondo è venuto a conoscenza della feroce ed eterna guerra sotterranea tra vampiri e lycans, e la repressione messa in atto per spazzare ogni sacca di resistenza è stata efficace e spietata.
Selene, risvegliatasi dopo dodici anni di sonno criogenico all’interno di un laboratorio del governo dove vengono condotti misteriosi esperimenti sui vampiri, riparte alla ricerca dell’amata Michael in un mondo dominato da regole nuove e nemici sempre più potenti e altolocati; al suo fianco la figlia dodicenne Eve, metà vampiro e metà lycan.
Era arrivata allo spartiacque della propria esistenza la saga di Underworld, capace negli anni di cristallizzare intorno a se un zoccolo duro di fans in un arcipelago di sostanziale indifferenza e disattenta compartecipazione generalizzata nei confronti delle avventure della bella vampira Selene; dopo un terzo capitolo dal fiato cortissimo – l’idea stessa di un prequel tradiva una sostanziale mancanza di idee e di fiducia nel format, affidato oltretutto a un regista tecnico come l’effettista Patrick Tatopoulos e privato della sua unica e vera colonna Kate Beckinsale – sembrava essere il naturale canto del cigno di una serie che aveva fatto di una certa tranquillizzante essenzialità narrativa il proprio punto di forza. Parlare per questo quarto capitolo di abbandono di una strategia conservativa appare certamente eccessivo, ma è evidente come negli uffici della Screem Gems una mente appena più illuminata delle altre dev’essersi resa conto che, appurato che in sostanza ciò che avrebbero dovuto offrire al fedele pubblico sarebbe stata la solita minestra presentata con un vestitino appena più moderno e non chissà quale ricercato gourmet, tanto valeva affidare l’alchimia a qualcuno che potesse relazionarsi alla pellicola da una prospettiva appena un po’ più dinamica di quanto fatto fino a quel momento.
E quindi largo alla coppia Måns Mårlind/Björn Stein, coppia di registi in ascesa tra esordi horror (Storm, 2005) e puntate al thriller mainstream (Shelter, 2010), professionisti certo non di primissimo pelo ma capaci di sfruttare con un certo qual spietato senso pratico quelli che erano i punti di forza della serie dandogli un bella frullata insieme all’ormai immancabile 3D, il che a conti fatti si traducono in una sola parola: Kate Beckinsale, Selene e Selene 3D. Basta poi con l’underworld dei precedenti episodi e via di luccicanti notturni metropolitani illuminati a giorno dai disastri compiuti dalla nostra rediviva eroina, che dopo un breve prologo necessario a riannodare i fili della continuità dopo l’intermezzo-Rhona Mitra, accendono di ipercinesi action e sorprendente violenza i primi venti minuti di proiezione, palesando la sostanziale inutilità di chissà quale costruzione narrativa per garantire ciò che Underworld sin dai suoi primi vagiti si era ripromesso di offire: Selene, anzi Kate Beckinsale, e mazzate. Una Kate Beckinsale fasciata nella sua ormai proverbiale tuta di pelle le cui due-espressioni-due sono più che sufficienti a garantire il risultato, mentre quel minimo di script necessario – made in Len Wiseman, as usual – si snoda placido sui consueti binari del solido e del prevedibile, mentre i nostri due svedesi si lasciano andare a qualche facile citazione giocando con efficacia con i linguaggi cinematografici più in voga del momento, tra evoluzioni-rallenty in ottica 3D e più di una digressione nel mock dei filmati di repertorio e delle telecamere di sicurezza. Un peccato che con un budget di quasi settanta milioni di dollari ai nostri non sia stata concessa una stampella digitale all’altezza: forse, in buona parte concentrato nella realizzazione dell’enorme super-Lycan che contende al sempre onesto Stephen Rea (V per Vendetta) il ruolo di villain della vicenda, si sia finito per trascurare il budget dedicato alla qualità grafica degli altri, in verità pochini, lupi mannari, ma tant’è, chè l’importante era dare una rinfrescata alla serie e garantire una legittimità a un prosieguo del franchise mai così in pericolo. Il tutto ottenuto nel tempo record di un’ora e quindici minuti, come dire: questa dopotutto è la solita minestra, e si vede, ma è più gustosa di ciò a cui vi abbiamo abituati, e non è nemmeno così allungata.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.