Si respira un senso di morte e disfacimento difficile da trovare nei film coevi.
Bart Gregory, soldato semplice di stanza in Iraq, viene ucciso durante un conflitto a fuoco svoltosi in circostanze poco chiare. Amici e parenti ne piangono la triste perdita, ma il buon Bart si risveglierà poche settimane dopo il funerale per sconvolgere la vita dell’amico Joey.
“The Revenant” non è affatto un brutto film. E Prior, che fa un po’ da one man band della situazione, producendo, supervisionando il make-up e dirigendo, non è un cattivo regista. Mette molta, forse troppa, carne al fuoco. E quando si tratta di gestire il grottesco, mischiando horror, comicità da buddy-movie e tragedia, è necessario possedere una visione d’insieme in grado di “contenere” tutti i registri. “The Revenant” è una commedia, financo un film politico se vogliamo, che si nutre della carne, è proprio il caso di dirlo visto il contesto, di altri film più blasonati e classicizzati quali “Dead of Night” di Bob Clark e “The Return of The Living Dead” di Dan O’Bannon, per non parlare del non troppo recente “Shaun of the Dead” di Edgar Wright, mettendo in scena la tragica dipartita e l’ancor più tragico ritorno a casa di un reduce della nuova sporca guerra in Iraq, Bart Gregory (David Anders, molto bravo). Nessuna tensione, nessuna catarsi, niente spettacolarità. Il risveglio del soldato è preso come un dato di fatto. Semplicemente, Bart si sveglia nella bara e ne esce, sporco, in via di disfacimento organico e con il filo chirurgico con cui gli addetti alle pompe funebri gli anno sigillato le labbra.
Ritorna dunque nell’unico posto dove può tornare, dal suo migliore amico Joey (Chris Wylde), che nel frattempo si è fatto la sua promessa sposa. Dietro la commedia si nasconde la tragedia e dietro all’apparente comicità delle situazioni, si staglia in realtà un pozzo nero. Le necessità di Bart vanno oltre il cazzeggio o le bevute nei locali. Il suo è un bisogno opprimente, una dipendenza che lo porta ad avere crisi d’astinenza dolorose. Prior è freddo, neutro, non giudica e il tono e l’atmosfera del film riescono ad essere realmente disturbanti, intendiamoci niente di clamoroso o ossessivamente fastidioso, ma vi è costantemente la sensazione che ci sia qualche cosa di profondamente sbagliato. E questo fa sicuramente bene all’opera di Prior. Quello che fa meno bene è il voler a tutti i costi dimostrare di saper padroneggiare stili e registri differenti, così quando il film si trasforma in un vigilante-movie con i due amici che massacrano la feccia della città permettendo così a Bart di cibarsi del sangue di cui ha disperato bisogno, Prior guadagna, forse, in spettacolarità, ma perde per strada quello che aveva costruito con un certo savoir-faire.
Si respira sempre e comunque un senso di morte e disfacimento difficile da trovare nei film coevi, ma il giudizio finale ne esce compromesso, soprattutto in un film di due ore che mantiene e ostenta un ritmo volutamente lontano dalle accelerazione di marca Michael Bay e Platinum Dunes. È tuttavia innegabile che Prior ci sappia fare e che abbia una sua idea di cinema (molto bella la scena in cui a Bart viene recapitata la testa tagliata dell’amico con cui riuscirà a parlare tramite vibratore utilizzato come amplificatore delle corde vocali, tra farsa, tragedia e parodia) che porta avanti fino al finale amaro e fanta-politico. I bidoni che contenevano i morti viventi del 68 romeriano, ritrovati e aperti nell’era Dan O’Bannon, ora vengono spediti in Iran come arma batteriologica non convezionale. Il cerchio si chiude. Bella intuizione. Comunque, da vedere.
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