Nel 1989, il pronto intervento 9-1-1 risponde alla chiamata di Maria Rossi che confessava di aver brutalmente ammazzato tre persone. Venti anni dopo, sua figlia Isabella cerca di scoprire la verità su quanto accaduto quella notte. Si reca in Italia all’Ospedale Centrino per Maniaci Criminali dove sua madre è stata rinchiusa, per capire se è mentalmente instabile o posseduta dal demonio
L’altra faccia del diavolo (The devil’s inside) lascia un po’ sbigottiti per la sfrontatezza con il quale affronta sia il genere esorcismi sia l’abusato filone dei falsi documentari, il mocku, che tanta gloria ha avuto a partire col famigerato Blair witch project. C’è molte volte la presunzione nell’affrontare questo genere-non genere con la sciatteria di uno scherzone goliardico tra amici, abbiamo riscontrato questo atteggiamento sia in prodotti milionari come Cloverfield sia nelle sue incarnazioni più low budget come l’indecente Atrocious. Il mockumentary invece, proprio per la sua natura di facile immedesimazione, per il il suo infrangere il fragile velo di Maia tra spettacolo e spettatori, per riuscire a portare l’irreale più fantastico (streghe, fantasmi, demoni sbavanti) in un what if di demoniaca reinterpretazione marvelliana del reale, segue regolo be stabilite di calligrafia cinematografica che nulla ha a che vedere con l’improvvisazione.
Basti vedere il più delle volte vituperato (e ottimo) Esp o il recente Cotton (L’ultimo esorcismo) per capire quanto lavoro possa esserci in fase di scrittura soprattutto nel cercare di umanizzare personaggi standarizzati e nello studio non peregrino della paura. Poi ci vuole indubbio talento per simulare uno studio dell’immagine accurata nel gioco di una ripresa casuale. L’altra faccia del diavolo non tiene conto nè dell’intelligenza dello spettatore nè delle potenzialità un film demoniaco ambientato a Roma a due passi dal Vaticano e cade nello stesso facile errore di grossolano semplicismo dell’imbelle Il rito del comunque bravo Mikael Håfström. E’ come cercare di rifare per la 214esima volta un film su nostro Signore Gesù Cristo: dopo Il Re dei Re, dopo Zeffirelli ci può essere solo qualcosa di così imprevedibile da essere oltre le frustate di Gibson e il suo aramaico per spettatori in vena di essere elitè, uno Scorsese per dirla tutta, un Lelouche che affronta una storia d’amore universale o un Godard che sposta il baricentro dell’attenzione dalla donna all’uomo.
Inutile dire che L’altra faccia del diavolo è quello che ti aspetti alla voce esorcismo: voci gutturali, parolacce, lettini dove donne spingono preti contro i muri. Che barba, che noia, che noia, che barba e giù di piedi che muovono le lenzuola, Raimondoooooooo! Non che nel film di William Brent Bell (uno che 6 anni fa aveva girato un altro pessimo horror, Stay alive) sia proprio da buttare via in toto (una scena di un certo impatto è sicuramente il tentativo di annegamento di un neonato da parte di un prete), ma, diciamo, che i difetti sovrastano i pregi. Interessante l’idea di una possessione che si protrae come un virus (ma c’era comunque già Rec 2 a dirla tutta), ma anche questa intuizione è mal sfruttata e buttata via negli ultimi concitati (e stupidissimi) minuti. Eccolo un film quasi masochista: parte benissimo con una chiamata da parte di una donna alla polizia per poi impantanarsi in chiacchere e in scene che sembrano la versione for dummies non tanto di Will Friedkin (per quella c’era già Renny Harlin), ma del Claudio Fragasso di La casa 5. Talmente vergognoso da sembrare uno scherzo di cattivo gusto, una parodia mal congegnata alla Scary movie, L’altra faccia del diavolo è uno di quei rarissimi film che possiamo consigliarvi di evitare.
About Andrea Lanza
Si fanno molte ipotesi sulla sua genesi, tutte comunque deliranti. Quel che è certo è che ama l’horror e vive di horror, anche se molte volte ad affascinarlo sono le produzioni più becere. “Esteta del miserabile cinematografico” si autodefinisce, ma la realtà è che è sensibile a tette e sangue.