Claudio Vergnani recensisce il romanzo da cui è stato tratto “Angel Heart”, il film diretto da Alan Parker e interpretato da Mickey Rourke.
In un’epoca di piattezza espressiva, di finali a sorpresa che a sorpresa non sono, di personaggi che si scimmiottano a vicenda sino a rendersi l’uno la caricatura dell’altro (vogliamo parlare dei tanti monaci investigatori che hanno messo a durissima prova la nostra pazienza dopo la pubblicazione de Il Nome della rosa di Eco?), di ricerche trafelate e convulse (e spesso francamente sconclusionate) in ambiti esoterici, di rivelazioni evangeliche segrete (segretissime, le più segrete di tutte), di nuovi apostoli sconosciuti, ennesimi (e stucchevoli) misteri templari, di trame smontate e ricostruite su piani temporali allucinati e frammentari (come vecchie matrioske russe pescate sui banchi di un mercatino dell’usato), di opere – letterarie e cinematografiche – che ripiegano sul remake per poter dire – si badi – qualcosa di nuovo… In un’epoca così caratterizzata, dicevamo, dovrebbe stupire che per trovare un genuino colpo di scena, ben congeniato, originale e realmente disorientante, si debba ripescare un romanzo pubblicato nell’ormai lontano 1978.
Dovrebbe stupire ma non stupisce. Come detto, tonnellate di prodotti l’uno simile all’altro – come gatti che continuino a figliare tra di loro in una incessante covata consanguinea – assalgono il lettore (o lo spettatore) con la forza bruta della quantità e del battage pubblicitario. E’ un vero e proprio assedio. Che sarebbe il meno, se non fosse accompagnato dal lavoro ai fianchi più oscuro ma non meno redditizio del “dopotutto, che altro c’è da leggere di veramente nuovo?”.
Non saremo noi, qui, ad affrontare il tema della ripetizione come gratificazione del lettore (o spettatore) che fruisce di un testo o di un video dove ci si attende, e viene dato, il già letto e il già visto. Basti dire che esistono maestri della serie, in grado di tenere avvinto il lettore con avventure che bene o male sono – almeno nella struttura portante – la ripetizione l’una dell’altra. Come appunto il lettore chiede e come lo scrittore sa. Tra tutti i grandi che hanno seguito questa linea citeremo ad esempio il solo Jan Fleming, che riteniamo non abbia bisogno di essere presentato.
Ma non sono gli autori che si cimentano nella produzione seriale che appiattiscono il genere, perché viene spesso proprio da loro la trovata, la variazione, l’idea, la svolta che fa sì che i lettori si appassioniamo ancora di più a ciò che già li appassiona. Chi scrive ritiene invece che a faticare e spesso a non raggiungere un risultato degno di nota sia spesso chi tenta di proporre – magari perché in quel momento la materia è di moda – il colpo di scena sensazionale, la chiusura scoppiettante, la rivelazione definitiva del definitivo segreto. Un giorno qualcuno scriverà di una pergamena (ovviamente secretata da qualche oscura milizia del Vaticano) dove si svela che Gesù cristo era gay e gli apostoli solo compagni occasionali. Fa ridere? Oggi sì, ma domani – un domani nemmeno tanto lontano – forse acquisteremo (magari non in Italia, ché non è aria, per altri motivi) tale libro, e lo leggeremo magari un po’ perplessi, ma consapevoli che si innesta nel filone di cui dicevamo sopra. Il sensazionale a tutti i costi ovvero il colpo di teatro alla ‘chi più ne ha più ne metta’ .
Ma i colpi di scena sono altra cosa. Gli americani hanno una definizione calzante per definire quel qualcosa in più che innalza un romanzo dalla media e lo rende un classico a qualsiasi latitudine o epoca. Lo chiamano extra snap. Ed è di un extra snap del 1978 che parliamo ora.
Per inciso, quel che ci interessa è il romanzo, Falling Angel, e non il pur ottimo film, Angel Heart, diretto da Alan Parker (e interpretato dal miglior Mickey Rourke mai visto sullo schermo) e uscito nelle sale nel 1987. William Hjortsberg (scrittore assai poco prolifico e sceneggiatore di una certa caratura) scrive un romanzo breve, semplice, dalla struttura lineare (niente flash back o salti temporali) senza nemmeno sforzarsi di trovare un protagonista che abbia (almeno in apparenza) alcunché di originale. E’ un detective né più né meno alla Philip Marlowe (forse leggermente meno bolso e più cialtrone) che opera nella New York degli anni ’50. Riceve un incarico così banale che più banale non si può: deve ritrovare una persona scomparsa da un ospedale dove era tenuta in cura da anni. Il suo cliente, più gretto che misterioso, tale Louis Cyphre, non trova di meglio che avere mani che “è facile immaginare nell’atto di stringere una sferza. Nerone aveva certamente mani simili. E anche Jack lo Squartatore. Erano mani da imperatore romano o da assassino: languide ma letali, con crudeli dita affusolate, perfetti strumenti del male …”
Come si vede, si parte subito con un bel luogo comune e si procede più o meno su questa linea. Harry Angel (è questo il nome del nostro investigatore) indaga, supera con la brutalità e il cinismo ciò che non riesce a superare con l’astuzia, deve vedersela con un mondo sotterraneo di adoratori del demonio (che appaiono un po’ all’acqua di rose, in netto contrasto, quindi, con ciò di cui parlavamo nella nostra introduzione, dove invece tutto è roboante e spinto al parossismo), con suonatori di jazz non proprio limpidi nei loro trascorsi, con chiromanti sfiorite e, infine (e ci verrebbe da dire per fortuna), con una giovane creola, figlia dell’uomo che lui sta cercando e che pare un’ombra inafferrabile, che forse potrebbe essere l’amore. Tutto questo in un contorno di cadaveri mutilati e squartati, scontate baruffe con la polizia che ovviamente non vede di buon occhio i “privati” e i loro metodi poco ortodossi, e qualche capatina ‘d’ambiente’ a Central park per spiare di nascosto una risibile cerimonia voodoo.
La trama non potrebbe essere più banale, in effetti, se non fosse che il lettore – e qui sta la magia (o la fortuna, chi lo sa?) di Hjortsberg –, in qualche modo difficile da comprendere e ancora di più da spiegare, non è mai tranquillo. Ogni riga, ogni azione – anche la più innocua – vengono percepite come solamente la superficie di un intreccio più sottile, occulto (proprio così: occulto) che tanto risulta più efficace quanto meno viene proclamato. Angel, e i lettori con lui, si muovono in un mondo solo all’apparenza piatto e prevedibile, consapevoli in modo indiretto e disturbante della realtà verminosa e atroce che si cela oltre quello schermo di monotonia. A quel punto noi lettori siamo Angel, e come lui non siamo più in grado di avere sotto controllo l’inerzia dei fatti che ci spinge – non lo sappiamo ancora ma lo intuiamo con reale angoscia – in caduta libera verso l’orrore più viscerale (e irrimediabile) che sia stato concepito in un romanzo, e che ben viene riassunto nella citazione da l’Edipo Re che Hjortsberg ha scelto come memento iniziale per ammonirci.
Ahimè, com’è terribile la saggezza quando non è d’aiuto all’uomo saggio!
Il senso del romanzo è dunque qualcosa che non viene mai esplicitato (o vomitato addosso ai lettori, come spesso è usanza attuale) ma percepito tra le righe, intuito – magari a livello subliminale, perché l’autore non ci risparmia informazioni lampanti già dall’inizio -; è qualcosa di chiaro e sfuggente nello stesso tempo che ci gira in mente, e ci elude mentre stiamo per afferrarlo, perché procediamo nella lettura che ci sprofonda pagina dopo pagina in un Inferno personale (queste parole non sono casuali) che intravediamo soltanto ma che ci agghiaccia.
Il film che ne verrà tratto dieci anni dopo cambierà qualcosa nelle ambientazioni (New Orleans nella seconda parte al posto della disorientante New York del romanzo) non sempre guadagnandoci, e mettendo in scena un De Niro caricaturale (con tanto di tupè sulla testa) che toglie quell’impalpabilità perversa all’atmosfera del romanzo. Ma ci piace molto Rourke che percorre come Harry Angel il labirinto senza uscita delle proprie colpe – misto di cinica sbruffoneria e grandezza Shakespeariana nel riconoscimento del proprio peccato e della relativa condanna.
Non ci risulta che Hjortsberg abbia scritto (o pubblicato) altri romanzi del calibro di Falling Angel, ma certo quest’unico basta e avanza per farne un autore degno di essere ricordato. Forse, a ben vedere, non è casuale che di lui, essenzialmente, a mo’ di testamento letterario, rimanga solo quest’opera. Forse il romanzo è efficace perché anche lui, come il suo protagonista, ha chiesto molto e male e ha pagato troppo.
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