Cinema David Lynch: EraserMan (part 1)

David Lynch: EraserMan (part 1)

Lynch porta in superficie l’inconscio collettivo, ghettizza la realtà percepita individualmente e fruisce di un archetipico sistema di comunicazione psichica per oscurare l’inutile eccesso dei rifiuti organici perpetrati dalla società ai singoli esseri umani. Come? Facendo cinema.

Nel momento stesso in cui si mette in discussione il suo operato, l’azione di disturbo generata dalla sua mente geniale si è già compiuta (1).

INLAND EMPIRE segna l’epilogo di un viaggio lungo una vita e oltre, il futuro non potrà riservare altro che rimpasto e confusione, dolce sensibilità da vecchiaia (una nuova “storia vera”?) ed erotismo autoriale sempre più eccentricamente ossessivo. In questo flash-back&forward ondeggiamo cullati da un cannibalismo ipercritico e spudoratamente regale, ove il Maestro sorride compiaciuto del nostro piacere, seppur malinconicamente stupito da cotanto clamore per un vecchio che invecchia.

Lynch è così, falegname, pittore, regista, musicista e poi uomo comune. Circa 40anni fa ha conosciuto la meditazione trascendentale e non l’ha più mollata, anzi ha cominciato a trascinare su di sè le attenzioni di altri attempati curiosi vips della cinematografia americana.
Dovremmo partire dagli anni ’50-’60, periodo in cui si manifesta la prima fase di imprinting soggettivo caratterizzato dalle fabbriche in cui si muovevano i suoi vecchi o dalla cerimonia di investitura del presidente John F. Kennedy (a cui Lynch partecipò come “maschera”).
L’iscrizione alla School of the Museum of Fine Arts di Boston lo porta a lavorare in un negozio di cornici, la partenza alla volta di Salisburgo per studiare il pittore espressionista Oskar Kokoschka gli farà invece conoscere il terrore: una città troppo pulita e perfetta per essere reale.

Abbagli di un devoto?

Il destino gli ha raddrizzato la mente, il suo futuro era già scritto e questi episodi (anche se all’apparenza marginali) sono la radice di quell’albero genealogico frutto delle nostre “perversioni maniacali” in continua espansione. La crescita di Lynch è la magia di una vita, una qualunque se non fosse che a causa delle sue esagerazioni ci ritroviamo qui ad incensarlo gratuitamente, per il bene del cinema.

E’ uscito il suo primo album Crazy Clown Time eppure non sembra vero. Dopotutto è come se i Rolling Stones annunciassero oggi di pubblicare il loro terzo album di sempre. David è così presente nella storia da aver inciso la sua voce come un’impronta indelebile sopra ogni pellicola. Angelo Badalamenti è il suo mentore, la sua guida musicale irrinunciabile: Blue Velvet, Cuore Selvaggio, Twin Peaks, Strade Perdute, Una Storia Vera, Mulholland Drive.
Con lui ha ricamato l’universo onirico ideale, il secondo braccio e il “do re mi fa sol” di un corpo a cui non si può chiedere di più(2).

Il pittore pazzo Francis Bacon è l’altro pezzo mancante che unisce il filo del discorso estendendolo per intero, a macchie, sulla tela dei desideri: drammaticità e intensità folgorante. Sono schegge di follia opaca, che includono anche Edward Hopper, cantore delle periferie statunitensi, Magritte, Delvaux, De Chirico, il surrealismo e la metafisica. Come in un puzzle perfetto, David ha saputo leggere la propria mano meglio di qualunque chiromante e forse si è anche lasciato trascinare senza pilotare troppo il proprio destino.

Nel 1999 la storia vera si trasferisce sul grande schermo con The Straight Story, pellicola che stordisce le convinzioni di qualunque studioso lynchiano di cinema, per la mancanza dei solidi punti di appoggio della sua filmografia (per esempio l’assenza di femmes fatali, personaggi cupi e visionari, atmosfere rarefatte e inquietanti). La galleria di personaggi in sequenza (una ragazza incinta scappata di casa, un gruppo di ciclisti, una coppia ospitale di coniugi, due buffi meccanici gemelli, un sacerdote) smussa le spigolosità della vita intrecciando il delicato rapporto degli incroci casuali a distanza “on the road” tra il protagonista e il suo destino. Il titolo originale, The Straight Story, contiene un gioco di parole, da un lato “La storia di Straight” (il nome del viaggiatore del film), dall’altro “La storia dritta”, che indica la linearità del viaggio effettuato da Alvin Straight per raggiungere il fratello e, metaforicamente, la linearità della vita.

David ha dimostrato negli anni di poter rappresentare qualunque soggetto, la sua conoscenza è un albero in continua espansione, ben ramificato nella terra sotto i nostri piedi. Quel terreno dall’udito sensibile, dove prolifica la piccola vita delle formiche, la natura incontrastata, il concime che l’essere umano trasforma in letame. Blue Velvet è l’incontro tra la realtà fittizia e le irresistibili attrazioni del male. “Non so perché doveva essere un orecchio. Doveva essere un punto aperto del corpo, un buco che porta in qualcos’altro…L’orecchio si trova sulla testa e finisce direttamente nel cervello, era perfetto”(3).

Linearità non si traduce in banalità, i meccanismi contorti del nostro cervello non seguono delle regole scritte, gli impulsi che genera sono il risultato di una complessa scarica elettrica visiva e percettiva.

(1) Ciò non estende automaticamente il meccanismo di autocelebrazione a qualunque autore crei scompiglio cerebrale, altrimenti dovremmo discutere dell’alto quoziente intellettivo dei fratelli Muccino o della sindrome di Peter Pan (consapevolmente ragionata e pilotata) del Signor Moccia.

(2) Franco Battiato ha di recente ammesso di non aver mai avuto la passione della pittura e di conseguenza di aver imparato a dipingere perché lo infastidiva il fatto di non saperlo fare e soprattutto non saperlo fare in un certo modo.

(3) Intervista di Nan Robertson per il New York Times del 1986 “The All-American Guy Behind ‘Blue Velvet’”.

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