Prison of the dead è un film sicuramente da evitare anche se non è proprio uno dei peggiori film del suo autore. Ora nel leggere i credits il popolo insorgerà verso il povero recensore reo di una possibile gaffe: la regista è l’oriunda Victoria Sloan, una signora nessuno all’apparenza.
Ma se il nome vi intriga e già favoleggiate una playmate in bikini dalla labbra calde e le tettone generose vi devo deludere: Victoria Sloan è un uomo e mica un uomo qualsiasi: il regista più gay del secolo, David Decoteau. Se sapete di chi sto parlando i brividi di raccapriccio vi innonderanno la schiena: Decoteau è il regista più sciatto del panorama horror, uno che delle inquadrature se ne frega, che posiziona la macchina da presa come cazzo gli pare, l’importante per lui è filmare bei ragazzoni il più svestiti possibili.
Ma Prison of the dead arriva in un periodo ancora non sospetto quando la fama (immeritata) non aveva ancora baciato il brioso David per il suo stile glamour da Top girl del cinema queer. Quindi, sebbene si piazzi una battuta sui gusti sessuali di un personaggio, si cerca di mettere in scena persino un tête-á-tête amoroso tra un solo uomo e una sola donna senza amici maschi in giro in boxer attillati pronti a partecipare. Inutile dire come la scena sia girata in maniera davvero sciatta e assolutamente poco appetibile per qualunque voyeur in attesa di pelo femminile (lei lo fa con reggiseno e mutandine mentre è in una specie di catalessi). Il film non spicca tra l’altro neppure per il forte spreco di emoglobina con tanto di omicidi fuoricampo o per un ritmo incalzante: dura poco più di 70 minuti, ma sembrano 700. Oltretutto arrivati a un’ora di girato il povero David si deve essere accorto che il film era quasi finito quindi per salvare capra e cavoli ha pensato bene di girare i restanti minuti in un lunghissimo e immotivato rallenti.
La storia certo non spicca per essere da premio Oscar: cinque cretini esperti di occulto (ma a parole soltanto) si trovano chiusi in un vecchio caseggiato, un tempo teatro di torture ai danni di streghe, per cercare una chiave magica mentre tre zombi (ovvero uomini con una maschera da carnevale e occhi di rosso luminoso) danno loro la caccia. Se pensiamo poi che le vittime dei mostri cadono prima di essere uccise in uno stato di immobile trance si capisce quanto il livello di suspence dev’essere altissimo. Da antologia però alcune scene, su tutte quella finale assolutamente incomprensibile dove l’azione si interrompe su una frase banalissima. Vedere per credere: come se David si fosse stancato di girare e avesse pensato di troncare di punto in bianco il film. Esiste anche un sotto plot dove i protagonisti cretini sono seguiti da tre figuri ancora più deficienti, ma parlarne sarebbe come colpire con facilità un uomo che sta cagando. Non male davvero invece l’ambientazione teatrale che all’inizio fa sperare in un miracolo meta cinematografico che invece non ci sarà. Il film pur essendo brutto e sciatto non è, come detto nelle prime righe, il peggior lavoro del regista. Pensate quindi come potrebbero essere quelli brutti.
Nota a margine: il film è conosciuto anche come The game e Prigione di sangue. Quanti titoli per un film di così poco conto.
About Andrea Lanza
Si fanno molte ipotesi sulla sua genesi, tutte comunque deliranti. Quel che è certo è che ama l’horror e vive di horror, anche se molte volte ad affascinarlo sono le produzioni più becere. “Esteta del miserabile cinematografico” si autodefinisce, ma la realtà è che è sensibile a tette e sangue.