A volte ritorna. Perché non tutti gli estimatori di Stephen King lo hanno seguito e amato nella produzione che viene definita “post-incidente”.
Quella, cioè, che è seguita alla passeggiata del 19 giugno 1999, quando un minivan Dodge blu gli sgretolò le ossa e segnò uno spartiacque nella sua carriera. Stavolta, però, anche chi ha detestato Colorado Kid e storto il naso davanti a La storia di Lisey, dovrebbe ricredersi.22/11/63 è la summa del King pre e post-Dodge. E non soltanto perché – al netto di spoiler – il fedele lettore ritroverà ambientazione e personaggi di almeno uno fra i suoi romanzi più amati. Né perché è possibile leggerlo come testo a sè ma anche come tassello di un’unica narrazione, che confluisce quasi interamente nella saga della Torre nera ma che si può rintracciare saltando di libro in libro e inghiottendo le briciole di pane disseminate ad arte per i fedelissimi tra i fedeli. 22/11/63 è la summa perchè contiene tutti i temi a King cari: amore e politica, alcool ed eroi involontari, bambini alle prese con il male – sia esso molto umano o si nasconda nel sottosuolo, padri smarriti e violenti, madri che fumano in silenzio senza nascondere i lividi che si vanno scurendo dopo l’ultima lezioncina ricevuta dal marito. Solo che, questa volta, la donna che fuma, seduta su una sdraio in una fetida mattina di metà Novecento, è Marina Oswald, nata Marina Nikolayevna Prusakova.
Mettiamola così: se il romanzo raccontasse di una giovane russa, bella e infelice, che segue il marito in America e si trova stretta tra una suocera feroce e castrante come la madre di Eddie Kaspbrak in It (e Marguerite Oswald doveva esserlo davvero, a giudicare dalla smorfia con cui, nella foto, stringe la nipotina e sorveglia la nuora) e un marito incapace e violento, non saremmo lontani dalle situazioni da cui King si muove per poi esplorare altri mondi o, come in Dolores Claiborne o nel recentissimo racconto Herman Wouk è ancora vivo, per restituire il male e il dolore del mondo reale. Solo che, appunto, quella donna è la moglie di Lee Oswald, l’assassino di John Fitzgerald Kennedy. E a spiarne lacrime e miserie c’è un uomo che viene dal nostro presente: Jake Epping, professione insegnante, ex marito di alcolista, viaggiatore nel tempo. Jake ha un amico, Al Templeton, che gestisce una tavola calda, serve hamburger a prezzo risibile e un bel giorno (anzi: subito, all’inizio del romanzo: niente effetto bonaccia stavolta, a differenza di altre storie di King) si presenta davanti all’amico con l’aspetto di un morente. Lo è. Apparentemente sono passate poche ore da quando Jake lo ha visto per l’ultima volta: nei fatti, sono trascorsi anni e Al ha fatto in tempo a essere consumato da un cancro ai polmoni. Perché nella dispensa di Al, fra barattoli e verdure, c’è un accidente temporale, una crepa nelle regole dell’universo: viene chiamata “buca del coniglio” ed è un passaggio nel tempo. Chiunque vi ponga il piede, si ritroverà nel piazzale di una fabbrica tessile di Lisbon Falls, Maine, alle 11:58 del 9 settembre 1958.
Qualunque sia il periodo che trascorrerà a gustare root-beer e a esplorare un mondo dove si fuma liberamente e si portano i capelli corti e la cravatta, al ritorno saranno sempre trascorsi due minuti. E in quei due minuti (che possono durare anni) il viaggiatore potrà cambiare il corso della storia. Che sia minima, e riguardi il terribile passato di un vecchio allievo di Jake. O che abbia la maiuscola, e riguardi il mondo così come lo conosciamo. Perché la Storia ha uno spartiacque, ed è l’uccisione di John Kennedy a Dallas: se il presidente degli Stati Uniti non fosse morto, ci sarebbe stato il Vietnam? Ci sarebbe stato l’assassinio di Martin Luther King? E, addirittura, ci sarebbe stato un 11 settembre 2001? Nel dubbio (e i dubbi sono molti), Jake accetta: e si unisce alla lunga schiera di viaggiatori nel tempo alle prese con dilemmi metafisici, dal protagonista di Le Voyageur Imprudent di René Barjavel in poi. Anche King accetta il gioco, e nei dialoghi tra Jake e Al sviscera tutte le possibilità conseguenti a quello che viene chiamato il paradosso del nonno (se potessi andare nel passato, e se uccidessi mio nonno, potrei ancora nascere?). Dunque, accetta anche di scrivere quello che, stando all’etichetta, dovrebbe essere un romanzo di fantascienza. Che, però, è anche un romanzo storico. Che, però, è anche uno dei più preziosi tasselli del metamondo kinghiano. Laddove Jake (che anche nel nome ricorda il Jack Viaggiante de Il talismano e de La casa nel buio) deve fare i conti con il senso stesso dell’essere al mondo: può un uomo gentile (empatico è l’aggettivo che meglio gli si adatta) trasformarsi in assassino per il bene comune? E, soprattutto, cosa cambia nel presente da cui viene nel momento in cui forza un passato che non vuole essere cambiato? Quali le ripercussioni delle azioni di un singolo sul destino di una collettività? L’amore, si parva licet, può fare la differenza? E quanto passato e presente sono collegati (la domanda, a ben pensarci, era già in It)? Non si può rispondere senza svelare, e questa è la piccola sofferenza di chi si trova a parlare dei romanzi di King. Alcune cose, però, possono essere dette.
King sapeva bene di doversi cimentare con un paio di capolavori della letteratura che hanno trattato il tema dell’omicidio Kennedy (fra tutti, American Tabloid di James Ellroy). Non svicola, ma tiene la barra dritta su quella che è la propria poetica. Il viaggio di Jake nel passato è in primo luogo una riscoperta delle proprie possibilità (come insegnante e come – grazie all’incontro con la bibliotecaria Sadie) come uomo e amante. In secondo luogo, spazzando via qualche decennio di teorie del complotto (e vale la pena pensare che sia per esigenze narrative prima che storiche) scopre cosa si muove intorno a Oswald e quale sia davvero l’America della Guerra Fredda di cui ha solo letto nei libri di storia. Forse si può osare un passo ulteriore: capisce come anche il Male segua un corso crudelmente armonioso nell’intrecciarsi con i singoli gesti degli viventi, come le tenebre che aspettano fuori dal cono di luce dove gli uomini stanno danzando. L’orrore è nei nostri giorni: King lo sostiene da parecchio tempo.
Non importa, dunque, lo scioglimento della storia (in realtà importa, perchè il finale è straordinario, quanto non rivelabile), ma la storia stessa: ricca di allegorie e di deviazioni che riportano sempre alla strada principale, con un linguaggio nitido e ritmato (la traduzione è, da due libri a questa parte, di Wu Ming 1). Una storia piena di orrore, per inciso. Perchè è il tempo stesso a esserne la causa prima.
About Lara Manni
Scrittrice. Ha pubblicato: Esbat (Feltrinelli, 2009), Sopdet (Fazi, 2011).
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nov 28, 2011Posted By
ElviraLo sto leggendo, ahimé molto lentamente per mancanza di tempo, ma la storia mi prende davvero.
Non ho letto la recensione per evitare possibili spoiler o indizi, tornerò quando l’avrò finito, ma ammetto che anche solo leggere un anno e una città, all’interno del romanzo, mi hanno fatta incrociare le dita:
SPOILER
Derry, 1958. Speriamo, speriamo.
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nov 28, 2011Posted By
cartabaggianaOttima recensione.
Il libro è davvero molto bello, corposo (al di là delle dimensioni), ricco di tecnica, raziocinio, artigianato e sentimento ma la traduzione lascia talvolta a desiderare.
Saluti.