Pur nella sua ingenuità “ottantesca”, Silver Bullet è di certo molto meglio dei prodotti precotti e indigeribili, sia licantropici che vampireschi, che Hollywood ci ha propinato e ci propinerà in futuro.
Ha ancora senso di questi tempi riciclare l’ormai abusata figura del licantropo? Se ci dovessimo basare sulle recenti uscite cinematografiche, Wolfman di Joe Johnston o Cappuccetto Rosso Sangue della Hardwicke , poche sarebbero le motivazioni per giustificare il reimpiego di un’icona orrorifica ancorata saldamente all’immaginario collettivo.
Partendo però dai classici Universal o Hammer, con le immortali maschere di Lon Chaney Jr. e Oliver Reed, passando da misconosciuti gioielli come il Wolfen di Michael Wadleigh, fino ad arrivare ai capolavori anni 80 di John Landis e Joe Dante, si evince come il mito del licantropo su grande schermo sembra accendere l’interesse del pubblico e la fantasia dei suoi autori. Ci provò a metà decennio ottantesco il giovane Daniel Attias a fornire una nuova possibile incarnazione licantropesca, basandosi sul romanzo di Stephen King The Cycle of the Werewolf (1983) opera anomala perché inizialmente pensata e pubblicata come un calendario, con dodici capitoli ed altrettante illustrazioni del grande Berni Wrigthson a scandire la vicenda di un piccolo borgo degli Stati Uniti terrorizzato da una presenza assassina che poi si scoprirà essere un uomo lupo. Fa parte, questo film, di un pacchetto di pellicole allora prodotte in pompa magna da Dino DeLaurentis, che commissionò a King la stesura dello script, affidandone poi la regia all’esordiente Attias, già assistente di Spielberg.
Ne venne fuori un piccolo gioiello ai tempi massacrato senza pietà dalla critica e che fu un terribile bagno di sangue al botteghino. Un peccato, perché il film di Attias, senza essere una pietra d’angolo del genere, possiede delle qualità che lo elevano ben oltre la soglia delle operine ammiccanti e cazzare con sottotrama demenziale spesso presenti sugli schermi in quel contesto storico (vedi “Spookies). Ambientato nella immaginaria Tarker’s Mill, tipica cittadina Kinghiana, il film rispetta le atmosfere ed i toni del libro, subendo nonostante tutto il solito processo d’edulcurazione, ma mantenendo l’idea portante del romanzo, cioè quella di affidare la parte del “cattivo” al ruolo simulacrale del prete, dell’uomo di chiesa rinnegato e maledetto dalla maledizione licantropesca. Il reverendo Lowe (un grande Everett McGill) è figura fortemente ambigua, che sembra rifiutare il suo status licantropico, portatore di morte e allontanamento dalla fede, ma in realtà consapevole della propria sete di sangue e assolutamente convinto della propria superiorità morale rispetto ai piccoli, patetici peccatori di provincia che per lui sono i suoi fedeli. Quando il giovane Marty Coslaw, ragazzino paralitico che trova nello zio il sostituto della figura paterna, scoprirà che dietro i terribili omicidi si nasconde proprio il reverendo, quest’ultimo non esiterà a tentare di toglierlo di mezzo, senza necessariamente usare il suo potere occulto. Rimane la forte sensazione che il plot kinghiano sia ispirato all’irrinunciabile capolavoro fulciano Non si sevizia un paperino (1972) con Tomas Milian, Barbara Bouchet, Florinda Bolkan e Mark Porel, quest’ultimo non a caso nel ruolo di un giovane prete operante in paesino del Sud italico, che uccide i bambini del luogo in preda ad una follia misticheggiante.
Pur non possedendone la ferocia e la genialità, il film di Attias raffigura però, come nell’illustre predecessore, una comunità totalmente chiusa in se stessa, abitata da reazionari pronti ad imbracciare il fucile e ad uccidere in nome di un falso senso di collettività, in pratica tutti potenziali assassini o licantropi, vedi la scena della trasformazione collettiva nella chiesa durante il sogno del reverendo. Piccole cose, degne però di essere ricordate e che aumentano il gradiente esploitativo della pellicola, girata e fotografata in modo professionale, il direttore della fotografia era il grande Armando Nannuzzi, mai sciatta o cialtrona, valorizzata pure da ottime performances attoriali, ancora oggi godibili, come Gary Busey nel ruolo dello zio Red, sempre a suo agio in ruolo da borderline, Terry O’Quinn pre-John Locke di Lost, nella parte dello sceriffo, la brava e bella Megan Follows, nel ruolo della sorella di Marty, e naturalmente Corey Haim, nella parte del giovane protagonista, molto bravo e a quei tempi sulla cresta dell’onda hollywoodiana, purtroppo scomparso giovanissimo nel 2010, dopo una vita di abusi con alcool e droga. Non che il film sia esente da difetti, sia chiaro, i personaggi rimangono un po’ tagliati con l’accetta, il plot risulta in gran parte prevedibile e gli effetti speciali di trasformazione, nonostante siano stati curati da Carlo Rambaldi, non possono assolutamente ed in ogni modo competere con i lavori di Rob Bottin e Rick Baker, tuttavia, nella sua ingenuità ottantesca, con i suoi omicidi “telefonati” ed i suoi personaggi malinconici, Silver Bullet (il titolo originale prende il nome dalla motocicletta personalizzata che lo zio Red regala a Marty per renderlo indipendente, e infatti gli salverà la vita in una scena di inseguimento di ampio respiro) rimane molto meglio dei prodotti precotti e indigeribili, sia licantropici che vampireschi, che Hollywood ci ha propinato e ci propinerà in futuro, dove le figure archetipiche diventano, sì, solo delle sbiadite figurine intercambiabili con qualsiasi altro villain dello schermo. Qui almeno il lupo mannaro, anche se chiaramente un uomo con il costume, rimane un lupo mannaro. Cult da riscoprire.
httpv://www.youtube.com/watch?v=8hSkvsPs13I
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ott 21, 2011Posted By
deepred78Bel film, veramente..
Non paragonabile magari a capolavori come Un lupo mannro americano a Londra ma di certo piacevole da guardare, come dice Domenico personaggi forse un pò tagliati con l’accetta ma che rendono bene l’idea del loro ruolo nel film….
mi è venuta la voglia di riguardarlo…