Debutto alla grande per la seconda stagione di The Walking Dead
Dopo aver lasciato il gruppo di sopravvissuti in fuga da Atlanta, ormai caduta in mano agli zombie, li ritroviamo in viaggio, tra strade abbandonate e invase da carcasse di automobili in cui marciscono i cadaveri di quei disgraziati che non sono riusciti a sfuggire all’apocalisse. Il mondo come lo ricordavamo non esiste più, ciò che ci rimane è un walkie talkie dove parlare nella speranza che il nostro interlocutore ci ascolti: Rick Grimes si ostina ad aggiornare il vecchio amico Morgan sul loro viaggio, nella speranza prima o poi di incontrarlo nuovamente.
È così che comincia la seconda stagione di The Walking Dead, serie tv da record ispirata ai fumetti di Robert Kirkman e sapientemente diretta da Frank Darabont (almeno fino al suo licenziamento deciso dalla casa di produzione proprio durante le riprese della seconda stagione).
La costruzione di La strada da percorrere segue fedelmente la struttura de I giorni andati, con un inizio scioccante: se nella season one Rick Grimes era stato costretto a sparare a una bambina-zombie vestita con pigiama e pantofoline, nel primo episodio della seconda stagione il gruppo si trova quasi immediatamente assediato da una mandria di morti viventi che si trascinano lungo l’autostrada. Costretti a ripararsi sotto le macchine abbandonate, si vivono momenti di autentico terrore: una tensione costruita in maniera perfetta dagli sceneggiatori e dal regista che con un continuo campo e controcampo ci fa vivere ogni attimo, facendo salire l’ansia fino all’inevitabile scontro fisico.
Come già avvenuto per la prima stagione, ancora una volta la parola semplicità in The Walking Dead è da considerarsi un pregio: non ci sono eccessi né derive action e i personaggi non vanno mai sopra le righe, ma c’è invece tanto ritmo e soprattutto dialoghi perfetti e di un’intensità rara che, dopo l’inizio al cardiopalma, rimettono in moto i meccanismi interpersonali: Andrea rimprovera Dale di averle impedito di scegliere sulla sua vita, costringendola a continuare a lottare contro gli zombie anziché morire; Shane medita di abbandonare il gruppo, ormai rassegnato ad aver perso Lori e Carl ed estromesso nel comando da Rick; Carl stesso sogna una vita normale e una visita al Grand Canyon. A tutto ciò si somma presto l’elemento disturbante, quello che muove l’intera puntata e vale a dire la scomparsa della piccola Sofia che, terrorizzata dopo essere stata inseguita da due mostri, si perde nei boschi circostanti.
Il modo in cui vengono sconvolti i momenti di apparente tranquillità con colpi di scena improvvisi sarebbe da far studiare nelle scuole di scrittura televisiva: Darabont e soci riescono a inserire gli attimi più intensi e scoppiettanti proprio lì dove lo spettatore è portato a rilassarsi. C’è un continuo gioco che permette a chi guarda The Walking Dead quasi di interagire come fosse in un videogioco o in un gioco di ruolo. La trama essenziale permette alla serie di avere un equilibrio invidiabile, senza cadere nelle consuete trappole del moderno intrattenimento televisivo come avvenuto ad esempio in Terra Nova, evento dell’anno sulla tv satellitare italiana, dove i personaggi sono rimasti prigionieri di vecchi cliché abusati e la storia è stata surclassata dalla spettacolarizzazione di paesaggi e avventure.
The Walking Dead si dimostra ancora una volta un appassionato omaggio alla tradizione cinematografica zombesca: da un lato rispetta con riverenza i canoni del genere e le sue regole (in questo senso l’autopsia allo zombie è un must, come anche la scena finale in cui non si può credere neppure per un attimo di poter tornare a una vita che non esiste più, che arriva l’evento scioccante che ci riporta alla realtà), mentre dall’altro prova a innovare con onestà innestando nuovi meccanismi narrativi che permettono allo spettatore di andare oltre l’apocalisse per capirne a fondo i motivi.
httpv://www.youtube.com/watch?v=ABl3Qg9iuhg
About Marcello Gagliani Caputo
Giornalista pubblicista, scrive racconti (Finestra Segreta Vita Segreta), saggi sul cinema di genere, articoli per blog e siti di critica e informazione letterario cinematografica, e trova pure il tempo per scrivere romanzi (Il Sentiero di Rose).
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ott 18, 2011Posted By
Chiara Panime lo sono perso ieri sera,non vedo l’ora di vederlo
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ott 18, 2011Posted By
Andrea G. ColomboDevi assolutamente recuperare la puntata.
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ott 18, 2011Posted By
SelenePascarellaThe Walking Dead è tornato. Come nella migliore tradizione horror si presenta nello stesso modo, ma non è più lo stesso.
La nuova stagione si apre con un inafferrabile senso di sottrazione. Meno azione, semplicità dei dialoghi, gruppo in assottigliamento, opzioni in drastico ridimensionamento.
Qualcuno dei miei colleghi più maligni (e acuti) li definisce gli effetti della dipartita di Darabont, ma io resto (a poche ore dalla visione) dell’idea che non è solo lo show a essere diverso, ma anche noi. Nemmeno dieci giorni fa gli zombie hanno occupato Wall Street. Per fortuna a nessuno è venuto in mente di sparargli in testa, ma sono sicura che più di qualcuno ci avrebbe volentieri provato.
In questi mesi abbiamo toccato con mano cosa volesse dire U. Beck definendo i pilastri del pensiero sociopolitico del XX secolo, come lo stato e la famiglia, categorie zombie.
Ogni racconto apocalittico è l’elaborazione, attraverso la narrazione, di un trauma. La fine attraverso l’interpretazione della fine. Raccontare ciò che avviene dopo è il tentativo di elaborare quel trauma, di traslarlo in qualcosa d’altro. I racconti post-apocalittici – tutte le storie di zombie lo sono, The Walking Dead, per la sua natura seriale, lo è al massimo grado – ricostruiscono un mondo nuovo dalle frattaglie di quello vecchio, sono il luogo (e il tempo) della paura e del desiderio, ma anche della rimozione. Il tentativo di sfuggire a quel trauma eludendolo e allo stesso tempo rivivendolo all’infinito.
Sappiamo che né la Bce né i Caschi blu ci salveranno dal buco nero che risucchia risorse finanziarie energie mentali, cose, storie, vite, persone. Sappiamo che la crisi, che è stata lì per un anno, un altro anno, non schioderà presto, forse non schioderà più.
Ma un anno non è passato invano. Un anno a piedi nudi nell’apocalisse crea pelle marcia, dolore e vesciche.
Persi su quel vortice di energia negativa leggi provvidenziali, politici carismatici ci paiono plausibili tentativi di cavalcare quel toro che si chiama fine dei giochi, un tentativo vecchia scuola, ma pur sempre un tentativo.
Se la fine del mondo e il mondo nella fine sono gli orizzonti prediletti del nostro modo di immaginarci la contraddizione ne è il codice. Un codice fatto di una infinita serie di ossimori.
Rick e i suoi venivano da una’apocalisse nell’apocalisse. Sopravvissuti all’indicibile, uniti dalla volontà di credere nell’esistenza di qualche forma di organizzazione parastatale che potesse difenderli, hanno abdicato a tutte le regole del nuovo mondo per aggrapparsi a quelle del vecchio. Hanno raggiunto l’ultimo avamposto medico contro i morti viventi e hanno assistito al collasso dell’ipotesi di una resistenza al contagio. Sono fuggiti spogliati di quel poco che avevano. Hanno perso. Di nuovo.
Li ritroviamo a un anno di distanza (per noi e per loro quanto, poche ore pochi giorni, ma che senso ha il tempo?) a gingillarsi con l’ennesima speranza vagheggiata (il forte militare laddove c’era stato il centro per il controllo malattie infettive), il nuovo miracolo (ritrovare la piccola Sofia persa nel bosco) capace di dare senso alla lotta. Come giustamente mi fa notare Giorgia Galeandro ci sale al petto un senso di impazienza e di nervosismo. Ancora lì a parlare con i crocifissi, a pensare di sopravvivere alle migrazioni di morti viventi (migrazioni….anche qui ce ne sarebbero di cose da dire…) a menarsela con le questioni sentimentali? (Shane e
Lori) Ancora non sono capaci di non farsi prendere alla sprovvista da esseri lenti e marci, ancora perdono le tracce nel bosco (roba che a Lost sanno fare anche i bambini)?
Essì: l’apocalisse non ha prodotto eroi. Non sono più svelti, non sono più saggi, non sono meno prevedibili. Sono rimasti al punto in cui li avevamo lasciati, la fatalità degli eventi non ha prodotto in loro uno scarto di conoscenza. Sono noiosi ora?
O siamo noi che li avremmo voluti diversi, che abbiamo bisogno di credere che la Fine insegni qualcosa a qualcuno? Sono loro che sono lenti o siamo noi a essere impazienti di una svolta risolutiva?
Non so voi, ma a me ieri sera i morti viventi sono sembrati (vedi l’inseguimento di Rick e Sofia) persino un po’ più svelti. O sono io che mi sento inchiodata?
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ott 18, 2011Posted By
Marcello Gagliani CaputoHo avuto la stessa sensazione io: l’inseguimento nel bosco, ma anche la lotta dentro al camper con Andrea barricata nel bagnetto. Sembrano più svelti e svegli: lo zombie nel camper è un vero predatore che annusa, cerca, tocca… che si stiano evolvendo prendendo coscienza che il mondo adesso è loro?