Michael Myers è il prodotto negativo partorito da una madre spogliarellista e da un padre alcolizzato.
Vittima dell’isolamento, trasforma il suo dolore in odio, massacrando prima degli animali e un compagno di scuola e poi, in una tragica notte di Halloween, la sua famiglia. Unica superstite la sorellina minore. Internato nella clinica psichiatrica di Haddonfield e seguito dal dottor Loomis, Michael riuscirà a fuggire dopo molti anni e tornato nella sua città natale andrà a recuperare nella sua vecchia casa la maschera e il coltello con cui aveva iniziato la strage.
Discutere di un lavoro come quest’ultimo targato Zombie risulta complesso principalmente per due motivi: il film è stato visto da due fazioni di pubblico, quello che ha visto l’originale di Carpenter nel lontano 1978 (o che l’ha ripescato in dvd o vhs anni dopo) e la frangia che ignora il capostipite della serie. L’altro problema è che la pellicola che ci si trova davanti non è né un remake, né un sequel, ma neanche un prequel!
Partirei da quest’ultimo punto declamando la furbizia (ma non saggezza) del regista/sceneggiatore che si allontana (solo sulla carta) dall’ondata di prequel che hanno colpito icone del cinema horror con risultati altalenanti (Hannibal, Leatherface), evita l’ennesimo sequel che al botteghino non avrebbe goduto di uguale richiamo, scarta la abusatissima carta del remake (immensa la lista delle fotocopie delle pellicole orientali) e plasma un ibrido a metà strada tra il remake e il prequel.
Battezzato newquel, il lavoro riprende i fatti narrati nel primo Halloween aggiungendo elementi che, teoricamente, avrebbero dovuto far luce sulla vicenda del piccolo Michael, sul perchè di un così feroce comportamento. A questo punto ci si affaccia a un bivio: chi non ha visto il capostipite carpenteriano seguirà le vicissitudini di un ragazzo maltrattato, solo e cresciuto in un ambiente malsano, lo vedrà formarsi in un oceano di immondizia verbale e lo osserverà fagocitato dalla follia. Chi però conosce l’originale discernerà la caduta completa dell’idea di base, quella secondo cui Michael rappresenta il male assoluto che si annida nella famiglia media americana e può insorgere con una furia devastante dall’interno dello stesso organismo societario.
Questo voler dare un volto al male, in questo caso fanciullesco, lascia alquanto perplessi proprio perché se un motivo si vuole affibbiare, cambiando l’intuizione del 1978, occorre giustificarne anche le azioni che ne derivano.
Michael Myers torna ad Haddonfield alla ricerca della sorella Laurie, ma per arrivare a lei compie un massacro che non ha alcuna giustificazione! Il boogyeman uccide le amiche della sorella (oltre che i vari malcapitati di turno) solo per riempire i minuti prima dell’incontro con quest’ultima, ritornando nel non-sense voluto della pellicola di Carpenter, ma con ormai mezzo film incentrato sulla follia del ragazzo. Insomma questa sproporzionata miscela è esplosa nelle mani di Rob Zombie che, sporcate le mani, ha iniziato a pulirsi un po’ da un lato, un po’ dall’altro. Per le nuove leve dell’horror lo spettacolo continua con il crocchiare dei pop-corn, per gli amanti del cinema dell’orrore classico l’imbarazzo e la delusione prendono il sopravvento.
Gli omicidi risultano abbastanza cruenti grazie a un ottimo uso degli effetti sonori usati qui non per far saltare sulle sedie gli spettatori, ma per rendere fatalmente realistiche le armi utilizzate durante le carneficine. La musica riprende in buona parte il tema utilizzato nell’originale miscelandolo ad alcune canzoni che ben si sposano con le immagini (eccezion fatta per l’abusatissima “Don’t fear the reaper” dei Blue Oyster Cult).
Il cast vede alternarsi attori feticcio come William Forsythe e Danny Trejo, la solita moglie del regista Sheri Moon ed il ritorno di Malcom McDowell (indimenticabile Alex in Arancia Meccanica) nel ruolo del dr. Loomis precedentemente appartenuto a Donald Pleasance (morto dopo le riprese del sesto capitolo di Halloween). Se la Moon si rivela sempre capace e talentuosa anche nel ruolo drammatico della madre di Michael, i soliti Forsythe e Trejo sono inseriti solo perché devono starci, giusto per comparire in poche scene per qualcosa in più di un cammeo. McDowell riesce bene o male a cavarsela, peccato che sia più volte imbarazzato di fronte a dei dialoghi veramente odiosi oltreché ridicoli. Questa strada imboccata da Zombie di minimizzare e volgarizzare le battute (per aumentare il realismo secondo il regista) sin dal precedente La casa del diavolo suona più come un pecoreccio approccio alla sceneggiatura, infatti sono infiniti i “fuck” lanciati gratuitamente dagli attori in dialoghi di poche parole costituiti per metà da insulti.
Pessima la caratterizzazione di Laurie impersonata da Scout Taylor-Compton (appartenuta all’ex screaming queen Jamie Lee Curtis) in questi frame decisamente detestabile e poco credibile.
Non parliamo poi dei buchi di sceneggiatura che se nell’originale erano giustificabili, qui lasciano allibiti. Da antologia la scena dell’evasione del nostro cattivone dalla clinica oppure l’uccisione dell’infermiera (che ovviamente lascia il piccolo pluriomicida con una forchetta di metallo in mano e gli volta le spalle per leggere placidamente il giornale). Sconcertante anche il finale, anch’esso vittima di una illogicità evitabile.
Proprio tutti questi elementi contribuiscono a sgonfiare tempestivamente le aspettative di chi attendeva un lavoro ben orchestrato e diretto, anche perché dopo un roboante esordio (La casa dei mille corpi) e un dignitoso sequel (La casa del diavolo) si sperava in qualcosa di più decoroso da parte di Rob Zombie. L’ex enfant prodige del cinema horror mostra la corda al giro di vite del terzo film, tuttavia la riuscita al botteghino rifocillerà le tasche dei produttori lasciando comunque soddisfatti gli amanti dell’horror fracassone e senza pretese.
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