Un capolavoro assoluto del cinema horror, definitiva consacrazione del genio di John Carpenter e nascita di un Mito: Michael Myers.
“Malocchio e gatti neri, malefici misteri. Il grido di un bambino, bruciato nel camino. Nell’ occhio di una strega, il Diavolo s’ annega. E spunta fuori l’ Ombra, l’ Ombra della Strega! La vigilia d’ Ognissanti c’ han paura tutti quanti! E’ la Notte delle Streghe!” (chi non paga presto piange)
Su questo coro di bambini, sempre più incalzante, si apre il magnifico primo capitolo della saga di Halloween, che vide la luce nel 1978 per mano del grande John Carpenter, qui al suo terzo lungometraggio dopo “Dark Star” (1974) e l’ ormai cult “Distretto 13:Le Brigate Della Morte” (1976).
Girato in soli 21 giorni, nell’aprile del 1978, e con un budget di soli 320.000 dollari, il film consacra definitivamente il genio del regista statunitense, capace di annientare la povertà di mezzi e i tempi ristretti con idee fulminanti, un plot inossidabile e una tecnica registica a dir poco fuori dal comune. La pellicola avrebbe dovuto originariamente intitolarsi The Babysitter Murders e svolgersi nel corso di più giorni, ma per problematiche economiche Carpenter decise di condensare la storia in un arco temporale di 24 ore, scegliendo un giorno particolare, emblematico ed emotivamente carico. Già dai titoli di testa si può capire che non ci trova davanti a un film qualsiasi: sullo schermo nero, entra in scena l’ormai celeberrimo e ossessivo tema musicale, composto da Carpenter in soli quattro giorni, seguito dal titolo, e da una minacciosa zucca che resta lì, con una luce intermittente al suo interno, per tutta la durata dei titoli. Straniante e minaccioso dunque fin dai primissimi minuti.
Siamo nel 1963 ad Haddonfield, Illinois, nella notte di Halloween: su questa data si schiude la narrazione, con la memorabile soggettiva del primo omicidio.
Soggettiva dell’assassino dunque, divenuta poi marchio di fabbrica di Dario Argento, e in seguito usata e abusata in numerosi film, già prima di allora vista, ad esempio, nel pregevole e poco conosciuto slasher ante-litteram nostrano “I Corpi Presentano Tracce di Violenza Carnale” , film del 1973 diretto da Sergio Martino. Soggettiva del killer che porta lo spettatore a identificarsi con esso, e spesso a simpatizzare per lui. Identificazione che qui viene accentuata mediante un piccolo ma geniale espediente: nel suo percorso, Michael raccoglie una maschera, la indossa, e la soggettiva si riduce alla visione attraverso i due fori per gli occhi. Dettagli apparentemente non troppo significativi, ma potentissimi per l’inconscio dello spettatore, che si trova così costretto a indossare i panni del cattivo, vedere i suoi crimini in prima persona, come in una folle corsa sulle montagne russe incatenati di forza al seggiolino, poiché non si vorrebbe farla, ma ci si è costretti. Il gioco si svela, l’immagine torna in terza persona, e vediamo un bambino, che tiene tra le mani un coltello insanguinato: quel bambino è Michael Myers, e la sua prima vittima era sua sorella.
Myers (nome del distributore europeo di “Distretto 13”, bizzarro ringraziamento di Carpenter per il successo del suo precedente film) è, tra i “nuovi mostri”, una figura contraddittoria, al tempo stesso tradizionale e atipica: a metà tra l’umano e il sovrannaturale, fugge dal manicomio per tornare nel suo paese, Haddonfield. Apparentemente, non ha uno scopo preciso (al contrario ad esempio di Freddy Krueger, che torna sotto forma di incubo per vendicarsi di chi lo bruciò vivo), dunque ai nostri occhi uccide per il solo gusto di farlo. Tradizionale quindi, nel suo essere un killer psicopatico, fuori dall’ordinario per il trovarsi a metà tra l’umano e il non umano, il “mostro” a tutti gli effetti.
Il personaggio di Michael (interpretato da Tony Moran), viene presentato verbalmente ancor prima di essere visto in età adulta, per bocca dello psichiatra che lo seguì nei lunghi anni di ricovero in manicomio: il Dottor Loomis (uno straordinario Donald Pleasence), figura a suo modo ambigua, che parla del killer con aggettivi forti, quasi eccessivi, “incarnazione del Male” o “demonio”, e si riferisce a lui non chiamandolo mai col nome proprio, ma il più delle volte “Quello”, accentuando il risvolto non umano della natura dell’assassino.
Non vediamo mai Myers in volto (a eccezione di una veloce inquadratura), poiché è coperto da una maschera bianca, anch’essa entrata, insieme agli artigli di Freddy e alla maschera da hockey di Jason, nell’immaginario collettivo. Una maschera fredda, inespressiva, ideata in modo curioso e fortuito: sempre per problemi di budget, si decise di utilizzare una comune maschera carnevalesca raffigurante il volto del Capitano Kirk di Star Trek, ossia l’attore William Shatner, dipingendola poi di bianco, e modificando la forma degli occhi e lo stile dei capelli. Shatner per anni ignorò che le sue fattezze furono all’origine del volto del killer, e quando lo venne a sapere se ne dichiarò onorato.
Michael Myers fugge dunque dal manicomio, e il Dottor Loomis lo insegue: conoscendolo, sa che potrebbe essere diretto al suo paese natale, Haddonfield; proprio in questo piccolo sobborgo si svolge il film, durante una vigilia d’ Ognissanti apparentemente normale e festosa.
Il film segna il debutto cinematografico dell’attrice che interpreta la protagonista del film, Laurie Strode: una giovanissima Jamie-Lee Curtis, figlia degli attori Tony Curtis e Janet Leigh (Marion Crane in “Psycho”, sorella della protagonista Lila Crane), che vedremo recitare al fianco della figlia nel 1998 proprio in uno dei capitoli della saga, “Halloween: 20 Anni Dopo” (Halloween H20).
Laurie è un’adolescente outsider, diversa dalla sue coetanee: ossuta, androgina, diligente a scuola, insicura, e soprattutto intelligente, rappresenta il contraltare della tipica protagonista horror, solitamente procace e piuttosto stupida. Il personaggio di Laurie getta le basi per ciò che sarà, con le dovute differenze, la Nancy di Nightmare: una ragazza apparentemente fragile che rivela una forza immensa. Il potere del Femminile contro il Male, dunque. Laurie e le sue amiche passeranno la notte di Halloween a fare le babysitter, anche se le amiche avranno comunque i loro “diversivi”. Qualcuno sta pedinando Laurie e quel qualcuno è proprio Myers. Non capiamo il perché, non ancora almeno, ma ha preso di mira proprio lei.
E’ da notare la gradualità con la quale il personaggio di Michael ci viene mostrato, caratteristica ben studiata e pressoché inedita finora nel cinema di genere: partendo dall’inizio in soggettiva, in cui non lo vediamo ma prendiamo possesso del suo sguardo, il killer adulto viene mostrato a poco a poco; sulle prime, di nuovo in soggettiva, contraddistinta in sonoro dal suo pesante respiro (altra trovata semplice, e geniale), poi ne vediamo soltanto il busto, senza che venga mostrata la testa, oppure viene inquadrato di spalle. Dopodiché, lo si vede per intero e frontalmente ma in lontananza, e lì per la prima volta vediamo il bianco volto innaturale, poiché mascherato. Dunque, non compare di colpo, in modo banale, ma si insinua, lentamente e in modo inesorabile, in un crescendo visivo che lascia di nuovo un marchio nell’inconscio dello spettatore, col quale Carpenter gioca come il gatto con il topo, al pari di Michael con le sue vittime.
Cominciamo a intravedere il killer in primo piano, dietro ad un vetro appannato, nel corso del suo primo omicidio dopo la fuga, quello di Annie (Nancy Kyes), una delle amiche di Laurie che le lascia in custodia la bimba che le è stata affidata per andare a prendere il fidanzato. La scappatella ovviamente le è fatale, poiché Myers la coglie di sorpresa in auto, sbucando dal sedile posteriore, e la strangola. Annie cade esanime col capo sul volante, scatenando il suono incessante del clacson (scena presente in molti film, tra cui ad esempio l’Argentiano “Tenebre”).
Anche l’uccisione di Lynda (P.J Soles), la seconda amica di Laurie, è difficile da dimenticare: dopo aver fatto sesso col suo ragazzo, lui si allontana a prendere una birra; nel frattempo viene ucciso ed inchiodato al muro da Myers, che prende il suo posto, arrivando in camera coperto da un lenzuolo sul quale sono posati gli occhiali del ragazzo: altra idea brillante, semplicissima, quasi ingenua, ma che funziona alla perfezione. Myers, dunque, pensa: fino a questo momento, non ha mai compiuto un gesto che comportasse anche soltanto un semplice ragionamento come in questo caso. Finora è stato un automa, silente ed istintivo killer. Ma qui cogliamo il suo lato umano, ossia la capacità cognitiva.
L’uccisione durante o subito dopo l’atto sessuale diventerà caratteristica tipica degli slasher: può essere intesa in senso punitivo-moralistico, oppure maniacale; è stata spesso interpretata in senso conservatore, se si fa sesso si muore poiché si “abbassa la guardia” dunque meglio non farlo. Sarebbe forse più opportuno guardare a essa come a un mettere in evidenza l’atteggiamento disturbato dei killer verso la sessualità, ma ci si inoltrerebbe comunque in discorsi noiosi, a base di intellettualismo pretenzioso e di bassa lega.
Si arriva dunque al finale: Laurie, entrata nella casa dove si trovano le sue amiche, scopre i cadaveri di colpo, tutti insieme, in una sorta di bombardamento emotivo. L’orrore dunque, finora nascosto alla protagonista, ma da lei avvertito poiché è stata da esso inseguita per tutto il film, arriva tutto insieme, in un grande big bang a 15 minuti dal termine della pellicola.
Ora Laurie è faccia a faccia con Myers e, finalmente, vediamo il killer in modo chiaro. La ragazza ne esce vittoriosa grazie al coraggio e all’ingegno. Il finale è, ovviamente, aperto. Nel corso del film, la figura di Loomis è come aleggiante sulla vicenda: presente solo a tratti, riflette molto e agisce concretamente solo di rado. E’ ambiguo, anche omertoso, nel non voler svelare alla comunità il pericolo incombente “per non creare il panico”. Loomis rappresenta la debolezza del raziocinio in contrapposizione alla forza irrazionale della furia omicida di Myers: la ragione sembra avere la meglio, ma solo apparentemente.
La parte di Loomis era stata in origine offerta a Peter Cushing e Christopher Lee, e venne rifiutata da entrambi: Lee lo definì, successivamente “il più grande errore della sua carriera”.
Il film considerato capostipite dello slasher è dunque molto di più che una semplice sequenza di omicidi: oltre che essere il primo capitolo di una saga lunga e dai risultati molto alterni, è soprattutto un’analisi del Male, un magistrale esempio di suspense giocata al meglio, un capolavoro del genere ad opera di un regista che sarebbe, di lì a poco, diventato un Maestro. Il Male, dunque, può avere molte forme: qui, ha lo sguardo vuoto, una bocca senza voce e indossa una maschera bianca.
About Chiara Pani
Conosciuta anche come Araknex, tesse inesorabile la sua tela, nutrendosi maniacalmente di horror,musica goth e industrial e saggi di criminologia. Odia la luce del sole e si mormora che possa neutralizzarla, ma l’ interessata smentisce, forse per non rendere noto il suo unico punto debole. L’ horror è per lei territorio ideale, culla nella quale si rifugia, in fuga da un orripilante mondo reale. Degna rappresentante della specie Vedova Nera, è però fervente animalista, unico tratto che la rende (quasi) umana. Avvicinatevi a vostro rischio.