La sensazione guardando Kinatay è di assistere ad un esercizio di stile per impressionare le giurie festivaliere.
Vincitore del premio per la miglior regia al 62° Festival di Cannes, questo parto di Mendoza è pellicola da prendere con le pinze. Duro, glaciale, sgradevole nella rappresentazione della violenza, girato con uno stile semi-documentaristico, Kinatay, cioè “massacro “ in filippino, ci racconta le gesta del giovane Peping (Coco Martin), fresco sposo, padre di un bambino di soli sette mesi, che studia per diventare poliziotto, ma che, per guadagnare più soldi, di notte è arruolato nella malavita di Manila.
Riscuote i debiti, come se nulla fosse, solo un modo più veloce per portare i soldi a casa, fino a quando il compare Abyong (Jhong Hilario) non lo coinvolge, su richiesta del boss, in un’operazione più “grossa” e rischiosa: il regolamento di conti con una puttana tossica, Madonna (Maria Isabel Lopez). Dalle sequenze iniziali del matrimonio, che ritraggono la Manila più solare, anche se caotica e ripresa nei suoi aspetti meno affascinanti, il tono del film si incupisce durante il lungo tragitto della banda con la prostituta legata e malmenata nascosta in macchina, vero punto focale e centro della pellicola, in cui la cinepresa di Mendoza (production designer e regista di una decina di titoli, tra i quali “Lola” 2009) non abbandona un attimo i protagonisti, rimanendo fissa all’interno del mezzo, spiando gli uomini in ogni azione, anche il solo pisciare in compagnia ai bordi della strada, producendo una fastidiosa sensazione voyeuristica nello spettatore, con la Manila notturna a fare da sfondo, dal centro cittadino fino alle zone rurali, traffico, tossici, puttane, venditori ambulanti che utilizzano le panchine come bancone per la merce, tra i quali si muove Peping, vera e propria coscienza morale del regista, che assiste impotente allo stupro e al massacro impietoso della donna.
Immagini forti, sgradevoli, in cui lo sguardo di Peping diventa inevitabilmente quello dello spettatore e del regista, anche se rimane la sensazione che quest’ultimo, specialmente nella parte finale, abbia confezionato quello che assomiglia più ad un “compitino” piuttosto che ad un’opera forte e senza compromessi sulla violenza della città filippina. Tutta la chiusura, con la colazione della gang e il ritrovamento delle parti del cadavere da parte dei media, risulta in questo senso stucchevole e appiccicata con la colla, in un rimestaggio di luoghi comuni che lascia infastiditi e, soprattutto, indifferenti dopo un’ora e quarantaquattro di film. Rimangono certo delle sequenze di una certa violenza a turbare il pubblico, anche se niente di particolarmente disturbante, e delle buone interpretazioni, ma la sensazione di assistere ad un esercizio di stile per impressionare le giurie festivaliere, è molto, molto forte. Rimandato.
httpv://www.youtube.com/watch?v=VzYSXmkbOpI
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