Cosa di meglio per l’Estate, col caldo torrido, la birra mai troppo ghiacciata, la tv che trasmette sempre e soltanto reality, di un bel film horror?
E cosa di meglio del binomio donne bellissime e incazzate contro zombi affamati di carne umana? L’animo nerd si esalta, il ricordo va al joypad mentre le prime immagini di Resident Evil di Paul W.S. Anderson irrompono sullo schermo in tutta la loro devastante potenza…
L’inizio videoludico
La serie di Resident Evil si compone di quattro pellicole americane più una giapponese in CGI. Tutti abbiamo amato (o odiato) le avventure di Alice (Milla Jovovich) in un paese degli orrori dominato da scienziati pazzi, morti viventi classici o corridori, passando di scenario in scenario, quello horror classico, quello fracassone, quello postnucleare, e così via, come schemi da superare in un videogioco. E appunto senza videogame questa serie di film non sarebbe mai nata.
Tutto inizia nel lontano 1996 quando Biohazard (titolo giapponese di Resident Evil) arriva su PlayStation. E’ l’inizio di un grande successo che porterà diversi seguiti, imitazioni e un nuovo modo di intendere l’orrore interattivo, il cosidetto survival horror. L’idea, semplice, ma efficace del suo creatore, Shinji Mikami, fu quella di portare il cinema dell’orrore su una console casalinga, senza rinunciare a una trama ben scritta, dialoghi da vero B movie, scene violente e inquadrature cinematografiche. Resident evil faceva davvero paura, soprattutto se lo si giocava a luci spente, con questi lunghi corridoi, l’idea di un orrore sempre in agguato e… bam! finestre che si rompevano e cani zombi pronti a attaccarti appena abbassavi la guardia.
La trama raccontava di un gruppo speciale di soldati e della loro lotta per la sopravvivenza al’interno di una magione immensa: non mancavano nè i colpi di scena narrativi, come traditori insospettabili o la creazione di una multinazionale diabolica, la Umbrella Corporation, nè un vario e fantasioso zoo di creature mostruose creato per l’occasione (da mostri lovrecraftiano a molossi invincibili). Convertito poi per altre piattaforme (tra cui lo sfortunato Sega Saturn) il gioco è stato oggetto di censure, soprattutto in occidente (le parti non giocabili erano recitati da attori veri), tanto da spingere la casa di produzione la Capcom, a pubblicare un Director’s Cut che più o meno aggiustava il concept originale di sangue e budello. Shinji Mikami si ispirò in primis alla serie degli zombi di George A. Romero, ma probabilmente Resident Evil non sarebbe stato così efficace se non fossero esistiti classici dei videogiochi come Alone in the Dark, ma soprattutto a Sweet Home, gioco del 1989 ispirato ad un film di Suito Humo.
Restano nella leggenda personaggi come la bella Jill Valentine o il rude Chris Rendfield (i due personaggi giocabili nell’avventura), ma anche villain come il biondo Wesker o il terribile Tyrant. Il successo non poteva non generare dei seguiti. Viene messo quasi subito in cantiere un nuovo capitolo, ma cancellato a circa il 60% del suo sviiluppo. E’ il rammarico più grande degli appassionati della serie che ancora oggi aspettano l’uscita e il completamento di questo Resident Evil 1,5, visibile per alcuni trailer e foto promozionali dell’epoca, che sulla carta non era male soprattutto alla luce di un nuovo interessante personaggio, una motociclista di nome Elza Walker.
Il motivo ufficile della cancellazione fu che la Capcom stabilì che il gioco fosse troppo simile al primo: ci si buttò quindi a creare dalle intuizioni e dalle ceneri d questo progetto abortito un bellissimo e ancor migliore Resident Evil 2. Questa volta lo scenario è più aperto e ci si trova fin dall’inizio in una città in preda all’apocalisse zombie per poi rifugiarci in una claustrofobica strazione di polizia in balia di mostri mai così minacciosi e onnipresenti (le mani che escono dalle assi per citare l’inizio di Il giorno degli zombi). Quello che rende Resident Evil 2 superiore al comunque grandissimo modello (e il titolo migliore di tutta la saga in senso assoluto) è la varietà della storia, dei nemici da affrontare, di personaggi questa volta caratterizzati in maniera meno stereotipata, e l’idea che per finire la storia e capire tutti i retroscena devi giocarla due volte, con i personaggi (Leon S. Kennedy, un poliziotto, e Claire Rendfield, la sorella del precedente protagonista) che capitano negli stessi scenari in archi temporali diversi assistendo a fatti già successi o che accadranno.
A curare gli spot promozionali, (uno di 30 secondi e l’altro di 15) il papà di tutti i morti viventi, George A. Romero. A interpretare i due eroi lo sfortunato attore Brad Renfro, scomparso giovanissimo per overdose, e Adrienne Franz, mente gli effetti speciai sono del genio del make up Screaming Mad George. Le due pubblicità costarono la cifra elevata di 1,5 milioni di dollari e furono girati solo per il mercato giapponese. I fan esultarono al pensiero che Romero potresse un giorno girare la versione cinematografica del gioco, d’altronde il modello partiva dai suoi film, ma purtroppo questo, come vedremo, non accadde.
Il successo del gioco è straordinario nonchè meritatissimo e il 1999 esce Resident evil 3: Nemesis sempre principalmente per Playstation. Si seguono questa volta le avventure della bella Jill Valentine, protagonista del primo capitolo, aiutata dal mercenario Carlos, in un tempo parallelo a quello del precedente titolo. Il gioco è ben fatto, ma delude i fan: troppo simile ai precedenti, non aggiunge nulla di nuovo e ormai l’orrore e la tensione non appaiono più tanto insostenibili. I tempi stanno sicuramente cambiando e, per una console di nuova generazione, il Dreamcast, esce nel 2000 Resident Evil Code: Veronica. Il gioco nettamente superiore al precedente è immenso, splendido graficamente, colmo di rimandi cinematografici (Romero, Hitchcock, i fratelli Wachowski su tutto) e ricco di tensione. Dopo questo nuovo capitolo la saga per molto tempo sarà incapace di reinventarsi. A nulla servono i tentativi da sparatutto alla House of the dead con il terribile Resident evil dead aim o l’idea di creare un gioco multiplayer interessante con l’ostico Outbreak (al quale seguirà un due), i giochi risulteranno o malfatti o, cosa peggiore, goffamente giocabili, segnando un calo di vendite mai percepito prima.
La Capcom intanto peggiora il disastro puntando sul cavallo sbagliato, non la PS2 o l’Xbox, ma il Gamecube, flop di casa Nintendo, con licenze solo per questa console, come il bel Resident Evil 0, prequel di tutta la saga, o il remake con grafica da urlo del primo capitolo. E’ l’ora di svernarsi e di sviluppare un titolo che sia capace di far dimenticare i clamorosi tomboloni, si tratta di Resident evil 4, ancora per Nintendo, ed è il 2005.
Questo nuovo tassello della serie da’ una mano di vernice bianca al passato: niente più zombi, ma infetti iperveloci, azione testosteronica, grandi schermi a cielo aperto. Il protagonista è il classico Leon S. Kennedy del numero due e il gioco si rivela un successone. Purtroppo qualitativamente pur se tutto risulta di gran classe (dalla grafica all’ambientazione da Sarajevo bombardata), tradisce lo spirito del gioco: si è più in uno sparatutto d’azione con componenti macabre che in un survival horror con l’aggravante che l’effetto paura è praticamente scomparso. Però la Capcom con questo gioco torna alla ribalta, acquista fan più giovani che mal si trovavano con le meccaniche ormai vetuste dei capitoli più classici e, a modo suo modo, reinventa il genere. Come per Resident Evil 1,5 anche qui salta fuori un Resident Evil 3,5: sembra che il gioco originariamente fosse diverso, molto più horror, con zombi, fantasmi e ambientazioni claustrofibiche, un vero Resident Evil quindi, ma i piani alti decisero di interrompere la lavorazione in favore di uno stravolgimento totale del concept originale.
Per avere un Resident Evil 5 passeranno diversi anni e intanto la Capcom vive di riadattamenti ai capitoli classici: una versione del primo gioco per Nintendo DS è il fiore all’occhiello di questo periodo, si chiama Dead silence, e dimostra come un classico dei videogiochi possa ancora fare paura a distanza di anni. E’ il 2009 quando il quinto capitolo esce: grafica superlativa, stessa formula all’apparenza del quarto, ma in realtà un passo avanti facendone due indietro. Gli zombi non ci sono ancora, ma i mostri sono più simili ad una versione snyderiana di romero che agli appestati del primo capitolo, ci sono rimandi ai vecchi giochi, il gusto horror è più massiccio e, nonostante sparatorie concitate e grandi spazi aperti, la formula sembra meno irriverente col suo passato. Protagonisti il Chris Rendfield del primo capitolo e una nuova compagna Sheva che lo affiancherà nella lotta contro l’Umbrella Corporation in uno scenario da Africa assolato. Il gioco fa un boom di vendite grandissimo e la Capcom lancia alcuni spot, come ai tempi di Romero, girati dal regista di Texas Massacre remake, Marcus Niespel. Intanto rumor vogliono che nel sesto, imminente capitolo torneranno i cari zombi. Non sarà l’unico Resident evil che la Capcom annuncerà (imminente Operation Raccoon city) ma sicuramente il più interessante e atteso. Il grande successo della serie genererà anche una serie di libri e di fumetti dalla scarsa qualità però artistica che seguono con risvolti inediti le storie principali dei videogame.
Resident Evil: i film
Facciamo un passo indietro quando George A. Romero gira per il Giappone i suoi due spot generando grande tumulto e apprezzamento da parte dei fan. Il suo nome si fa di forza il più indicato per girare la trasposizione filmica del videogioco. Il padre dei morti viventi si butta nel progetto, aveva già ammesso in precedenza di amare il videogame, e scrive una sceneggiatura molto bella e aderente col primo capitolo.
C’è tutto: da Chris e Jill ai vari mostri, compresi gli squali mutati, c’è il gore, la tensione, i tocchi d’autore, ma soprattutto c’è l’idea di fare di Resident Evil un tassello della saga dei suoi zombi. Purtroppo i produttori del film decidono di silurare Romero: la motivazione sarebbe stata che lo script era lontano dallo spirito del videogame, ma la verità è probabilmente un’altra, Romero era un autore, perciò meno controllabile di un qualsiasi anonimo shooter, e il film, troppo grondante sangue, non sarebbe riuscito ad andare in sala senza divieti. La sceneggiatura di Romero in tutta la sua bellezza la si può leggere qui. Tolto Romero di mezzo si punta su un regista meno famoso, ma dai discreti successi commerciali, con un passato già in felici trasposizioni su grande schermo di videogiochi. Si tratta dell’inglese Paul W. S. Anderson, autore del divertente Mortal Kombat e del cult fanta horror Event Horizon. Il regista si butta di buona lena nel progetto e gira nel 2002 un film elegante, pieno di riferimenti a classici del genere (da Suspiria a Zombi), dove, a differenza di Romero, l’aderenza al gioco è più nell’atmosfera che nei personaggi. Anzi si potrebbe dire che Resident Evil il film sembra più una versione alternativa del primo gioco che una trasposizione fedele: c’è l’Umbrella certo, i vari mostri, ma mancano le icone amate dai fan, Chris e Jill, a favore di una nuova entry, la sperduta e letale Alice interpretata da Milla Jovovich.
Il film visivamente è splendido, ha zombi classici e feroci, ma manca completamete di gore: pronto per arrivare in sala senza divieti e portare i ragazzini paganti in sala, quello che i produttori cercavano licenziando Romero. Mentre si gira nasce l’amore tra la Jovovich e Anderson che li porterà in tempi recenti ad avere una bambina, Ever Gabo. Tra i personaggi memorabili si ricorda soprattutto la bellissima Michelle Rodriguez in una parte molto alla James Cameron dei bei tempi (e che con Cameron farà poi Avatar) capace di dare al film quella certa dose di pepe da chica latina che non la lascia di certo a dire (“Se esco di quà la prima cosa che faccio è una bella scopata” dice a un certo punto). Anche le invenzioni non mancano: dalla bambina ologramma alla stanza di raggi laser fino al finale davvero romeriano dove su un giornale si legge “I morti canminano” come all’inizio di Il giorno degli zombi. Il film riceve critiche negative da parte della critica che non perdona il cambio di regista e spezza in due i fan, ma incassa moltissimo. Da questo punto Anderson curerà tutte le sceneggiature dei Resident Evil in carne e ossa.
Per il successivo film, Resident Evil: Apocalypse, datato 2004, c’è un cambio di regia, il timone passa al cileno Alexander Witt, con un passato di operatore e di seconda unità, e la storia riporta finalmente due personaggi del videogame, Jill Valentine e il mercenario Carlos, con il look di entrambi che ricorda il terzo Resident Evil originale. La regia è sicuramente meno ispirata rispetto al primo capitolo, ma non mancano tocchi di virtuosismo tecnico apprezzabili. Rispetto al precedente film poi il livello testosteronico aumenta con scene d’azione esagerate ed esplosioni coreografiche, ma il tutto non stona, soprattutto grazie a una sceneggiatura attenta a citare i grandi classici anche nel divertimento più tamarro (Fulci questa volta è il maggior referente). In più si ricreare una sequenza in maniera pressochè identica a Codename Veronica, solo sostituendo Claire Randfield con Alice.
Il gore resta a livelli bassi, ma la formula funziona ancora al botteghino e alcune scene restano ben impresse nella memoria (l’assalto di alcuni bambini zombi ai danni di una giornalista e un prete che nutre la madre con cadaveri). Milla fa la parte della leonessa, ma la bella Sienna Guillory nei panni di Jill le tiene testa.
Tre anni dopo ecco spuntare Resident Evil: Extinction girato niente pocodimeno che da Russell Mulcahy, il regista di Highlander. Questa volta lo scenario è completamente diverso: un mondo distrutto dalla multinazionale Umbrella, popolato da cadaveri, dove i sopravvissuti si spostano come nomadi di città in città. Il film è debole, ma la tecnica di Russell Mulcahy è degna di nota, purtroppo non avvalorata da una sceneggiatura che risulta piena di clichè e banalità sul tema (compreso l’eterno topoi della persona contaminata che tace agli amici la sua sventura). C’è da dire che le location sono suggestive (Las Vegas devastata su tutte) e non sono esenti echi sul videogame (l’introduzione di Claire Rendfield e l’attacco dei corvi), anche se gli zombi sono più vicini al concept moderno che a quello classico romeriano. Si va peggio però con l’ultimo capitolo, del 2010, Resident Evil: Afterlife, girato in un 3d avvolgente e straordinario, dall’artefice di questa saga cinematografica, Paul W.S, Anderson.
Ormai non c’è più interesse nel creare situazioni interessanti, si va avanti ad inerzia, in un ibrido indigesto tra videogame e cinema senza che nessun’anima prevalga. La parte del leone è sempre di Milla e si citano soprattutto gli ultimi capitoli action che ben si prestano al coinvolgente 3d. Con questo capitolo finisce una prima trilogia e nella mente di Anderson c’è l’idea di creare una seconda trilogia che ripartirà con Resident Evil: Retribution che dovrà uscire nel 2012. Il regista non è stato ancora scelto, ma nel cast è sicura sia Sienna Gullory nei panni di Jill che l’onnipresente Milla Jovovich in quella di Alice. Oltre a questa serie di film però paralleamente, in Giappone, è stato prodotto un altro Resident Evil, nel 2008, girato in computer grafica, e che segue le trame irrisolte del videogame. Ne verrà stanziato un altro entro la fine del 2011 dal titolo Resident Evil: Damnation. Per quanto riguarda il primo film senza attori in carne e ossa bisogna dire che non è assolutamente male, ma lascia sempre l’idea di essere un videogioco mancato e che sarebbe davvero stato un capoalvoro se fosse stato stanziato come capitolo da giocare.
Non male una storia così lunga travagliata e piena di morti artistiche e resurrezioni misteriose, per una serie anomala multimediale che è iniziata con videogame che guardavano il cinema horror per finire in film horror che pescano dai videogame!
Insert coin.
httpv://www.youtube.com/watch?v=OhhfJtGTrUs&NR=1
About Andrea Lanza
Si fanno molte ipotesi sulla sua genesi, tutte comunque deliranti. Quel che è certo è che ama l’horror e vive di horror, anche se molte volte ad affascinarlo sono le produzioni più becere. “Esteta del miserabile cinematografico” si autodefinisce, ma la realtà è che è sensibile a tette e sangue.