Non Aprite Quella Porta 3 sta nel mezzo, non affossa né eleva il buon nome della serie, è sostanzialmente tutto ciò che un seguitino anni 90 deve (e può) essere: amico del gore, ironico quanto basta e capace di stare in piedi da solo.
Il terzo atto della saga della sega segna l’uscita di scena del maestro Hooper, inizialmente intenzionato a metter mano al progetto ma successivamente costretto a dare forfait per realizzare l’horror paranormale I Figli Del Fuoco. Prima che Jeff Burr (regista dell’interessante Il villaggio delle streghe) venisse chiamato si erano già fatti il nome di registi del calibro di Peter Jackson al timone di comando. Certo è che la scelta di Burr, con sul groppone due film o poco più, si rivelò vincente nello sviluppo di un film poco autoriale che doveva lasciarsi alle spalle la brutta nomea del numero 2 e il suo folle circo grottesco. La copertina e il titolo parlano chiaro: si tenta di consolidare lo status di icona di Leatherface (con anche un bel restyling), sempre più omone-immagine della serie, creando un seguito semplice e un po’ prevedibile dove tutto è funzionale a spedire fresche e giovani carni a casa Sawyer. Nel caso specifico si tratta di Ryan e Michelle, che incontrano prima il molestatore Alfredo, poi l’apparentemente amichevole Tex (un Viggo Mortensen imberbe e senza l’apporto di Pino Insegno), entrambi membri della famiglia cannibale che dirottano la coppietta viaggiante dritto dritto verso Leatherface (R.A. Mihailoff, Hatchet 2).
La loro unica speranza di sopravvivenza è l’alleanza con Benny (Ken Foree, volto noto di classiconi come Zombi e La Casa Del Diavolo), un vendicativo cacciatore che vide i suoi amici brutalmente uccisi dai Sawyer. Non Aprite Quella Porta 3 sta nel mezzo, non affossa né eleva il buon nome della serie, è sostanzialmente tutto ciò che un seguitino anni 90 deve (e può) essere: amico del gore, ironico quanto basta e capace di stare in piedi da solo. E’ narrativamente che lascia un po’ amareggiati: troppo come Hooper, quasi un remake. E troppo noncurante degli sviluppi avvenuti nei primi due capitoli. Di buono c’è però il make up di Letherface, in assoluto, forse il migliore di tutti i film della saga, e l’idea di umanizzare il personaggio pigiando l’accelleratore sulle varie dinamiche familiari che muovono il deviato nucleo familiare. Ecco che un massacro diventa un modo per stare tutti in famiglia e divertirsi, un pò come giocare a pinella o scala 40 con mamma e nonna in una calda domenica d’Estate.
Il film di Jeff Burr non cede però mai nel grottesco come il precedente capitolo e cerca di recuperare il secco rigore del numero uno di Hooper. Particolarmente interessante quando viene mostrata la quotidianità di Letherface: in quella che dovrebbe essere la sua cameretta, tra oggetti di massacro, il gigante senza volto si concentra a “fare i compiti”, ovvero giocare a sapientino. Ma, intuizione di genio, davanti alla figura di un pagliaccio il bambinone scrive sul computerino “cibo” perchè quello è il suo mondo, un universo dove le persone sono solo carne per nutrirsi, e la motosega è il simbolo della famiglia, una famiglia malata e schizzata certo, ma che protegge e nutre i suoi membri con amore . Il “riassuntino delle puntate precedenti” viene (mal) condensato in apertura, poi si torna nell’incubo della tortura e della caccia all’uomo, senza pretese se non quella di riacciuffare i fan.
La continuità è un optional, come in altri casi (ricordate il misterioso ritorno di Jason da Manhattan a Crystal Lake tra i seguiti otto e nove di un’altra infinita saga horror?). Si dice che la prima stesura dello sceneggiatore David J. Schow (Il Corvo) ci andasse pesante e che la New Line impose una moderazione per evitare un inopportuno X-rating (equivalente più o meno al nostro VM18). Tuttavia la versione giunta a noi non è certo da far vedere alla nonna, non lesina sul gore e sulla violenza. Ok, aggiungerà pure poco alla leggenda della motosega ma non è un’ignominia e resiste decentemente negli anni. A maggior ragione perché 4 anni dopo, con molta più risonanza, uscirà il quarto atto, l’unica porta che davvero non si sarebbe dovuta aprire. Soprattutto se questa è stata scritta e concepita dall’altro papà della saga, quel Kim Henkel che creò Texas Chainsaw massacre insieme a Tobe Hooper nel 1974.
Il dubbio che assale, dunque, è solo quello sopraccitato: pseudoremake o sequel? Il rischio è che la visione lasci un sapore ibrido. Come dire: ben sviluppato, ma l’intento qual era? Una volta tanto buon dvd italiano, con versione “unrated” che aggiunge sei minuti e un po’ di sangue. Poteva certo andare peggio però…
“Non è un mio film, l’hanno massacrato. Hanno girato poi quel finale orribile! Ken Foree aveva la testa spaccata e ora si presentava con un cerotto in testa? Ma siamo matti? Telefonai a De Luca della New Line per dirgli di togliere il mio nome, ma non riuscii a farci niente. Quel finale pazzesco so che lo girò Michael Knue, un regista che aveva fatto un sacco di film New Line. Bisogna dire che Letherface incominciò già male, mi dicevano tutti avevo fatto un film troppo gore e bisognava alleggerirlo, ma, diamine era un Texas Chainsaw massacre! Cosa volevano? Barbie?”
httpvh://www.youtube.com/watch?v=6R-YOWp3wnk
Nel ruolo di una giornalista all’inizio torna l’attrice del numero 2, Caroline Williams, già protagonista del precedente film di Jeff Burr, Il patrigno 2. Forse la stessa Vanita “Stretch” Brock di TCM 2.
La primissima sceneggiatura di Texas Chainsaw massacre 3 venne rifiutata ed era scritta da Kim Henkel, trattasi del futuro Non aprite quella porta 4.
La workprint presenta il cut di Jeff Burr e oltre ad essere più sanguinosa presenta il finale voluto dal regista, nettamente migliore di quello vulgato. Il film si chiude sulla risata isterica della protagonista dopo aver visto che non è riuscita a sconfiggere il male. Cupissimo e disperato avrebbe alzato ancora di più il livello qualitativo dell’opera.
Esiste un altro Non aprite quella porta 3, italianissimo anche se girato in Virginia, del regista Claudio Fragasso sotto il solito pseudonimo di Clyde Anderson. Non disprezzabile esempio di thriller psicologico d’imitazione ha come cattivo una specie di Freddy Krueger. Il titolo truffaldino comunque è colpa dei distributori visto che in origine il film si intitolava Night killer.”.
About Andrea Lanza
Si fanno molte ipotesi sulla sua genesi, tutte comunque deliranti. Quel che è certo è che ama l’horror e vive di horror, anche se molte volte ad affascinarlo sono le produzioni più becere. “Esteta del miserabile cinematografico” si autodefinisce, ma la realtà è che è sensibile a tette e sangue.
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lug 18, 2011Posted By
La saga di Non aprite quella porta: dal realismo al 3d | Horror.it[…] avere un altro The Texas Chainsaw massacre bisogna aspettare il 1990. Tobe Hooper da prima interessato lascia il timone a favore di […]