Un film su diavolo ed esorcismi privo delle basi e della tensione necessarie a mettere davvero a disagio lo spettatore e intrattenerlo a dovere.
Ammetto di essere in difficoltà. Avevo puntato molto su questo film, ci speravo, ci credevo. Era da parecchio che non veniva realizzata una pellicola che affrontasse le tematiche che preferisco (la lotta per le anime immortali, Satana, Dio e la Chiesa, la possessione demoniaca) e vedere annunciato un film con il premio Oscar Anthony Hopkins, aveva significato per me un crescendo di aspettative e investimenti emotivi.
Nonostante l’età, Hopkins è indubbiamente un nome pesante che non può che rappresentare un blasone di tutto rispetto per una pellicola di questo tipo e per il cinema horror tutto, e il successo di un horror è (comunque la mettiate) sempre positivo per tutto il genere. Ecco perché la mia delusione dopo aver visto Il Rito è amara e difficile da metabolizzare.
Ancora una volta, infatti, ci troviamo davanti a un film potenzialmente dirompente che viene risolto in maniera confusa e frettolosa, senza alcun desiderio di vera indagine dei meccanismi dell’inquietudine e della materia che si sta trattando. Troppa sciatteria e presunzione da parte del cast creativo, forse convinto che per fare un horror bastino le solite porte che sbattono e un paio di inquadrature a effetto.
Possiamo forse attribuire la responsabilità di tale fallimento a Michael Petroni, uno sceneggiatore che ha sempre lambito l’horror, senza mai davvero affrontarlo di petto, visto che nel suo curriculum troviamo Possession (uno psicodramma con Sarah Michelle Gellar) e il pessimo La regina dei dannati (polpettone tratto da uno dei romanzi di Anne Rice). Oppure al regista Mikael Håfström ha al suo attivo Drowning ghost – Oscure presenze e il commestibile 1408 ispirato a un racconto di Stephen King. Insomma, un duo che sulla carta doveva cercare di dimostrare di essere in grado di meritarsi il compito di guidare questa nave satanica sino in porto e che ha invece schiantato il bastimento contro gli scogli, perdendo sia l’equipaggio che il carico. Forse un’accoppiata di artigiani dell’horror non avrebbe saputo fare meglio? Forse. Ma peggio di questi due non credo.
Il problema de Il Rito risiede nel modo in cui viene trattata la materia della narrazione, non certo nella confezione. Potremmo paragonare questa pellicola a una splendida villa costruita in riva al mare. Da lontano appare favolosa e ci avviciniamo pieni di entusiasmo, tuttavia a mano a mano che ci si avvicina, ci rendiamo conto di come la villa sia barcollante perché costruita sulla sabbia e le fondamenta stiano cedendo. Per di più, una volta dentro troviamo che l’arredamento è gentilmente offerto dall’Ikea. Appare bello, o almeno ci prova, ma si vede fin troppo bene che non è all’altezza di quanto promette.
Vorrei farvi tutto l’elenco minuzioso di quello che non funziona nel film, ma dovrei raccontarvi troppo della trama e non penso sia il caso. Mi limiterò allora a pochi elementi essenziali. Partiamo dalla cosa più grave: le fondamenta della storia. La struttura che dovrebbe reggere tutto il film. Se si deve affrontare una storia di possessione e del rapporto tra uomo e fede, tra uomo e Chiesa, sarebbe il caso di documentarsi un po’, non credete? Questo perché la costruzione della vicenda dev’essere rigorosa, così da permettere allo spettatore di calarsi nell’atmosfera del film senza continuamente pensare che – appunto – sta assistendo a una messa in scena.
Siamo all’ABC, alle basi, al primo passo. Eppure da subito, ogni tentativo è vano. Ed è colpa, lasciatemelo dire, di chi ha scritto e girato il film, perché è evidente che di horror, questi due signori, non capiscono una beata mazza e sono stati chiamati solo per necessità della produzione. Ovviamente, trattandosi di horror (o thriller sovrannaturale, chiamatelo come volete) avranno visto un paio di volte i capisaldi del genere e avranno detto: “Facile, possiamo farlo, che ci vuole?”, salvo poi inanellare una puttanata dietro l’altra.
Si può dire puttanata in una recensione?
Non credo.
I due signori, regista e sceneggiatore, infatti, ci raccontano che il giovane Michael (Colin O’Donoghue) figlio del becchino del paese, stufo di preparare i morti per le esequie – in un incipit scopiazzato da Six feet under – decide di entrare in seminario. La giustificazione?
“Nella famiglia Kovak, o fai il prete o il beccamorto.”
Fine. Questa frase dovrebbe essere il pilastro che sorregge tutta la costruzione narrativa del film. Non stiamo raccontando di una famiglia italiana dei primi del 900, o di un dodicenne malmenato dal patrigno e quindi in fuga da un destino ineluttabile, nossignore: parliamo di un sano giovinazzo americano dei nostri tempi, con un padre che lo ama, e che nonostante questo – essendo stufo di imbellettare cadaveri – vede come unico sbocco il seminario!
L’amico del ragazzo, leggendoci nel pensiero, prova a chiedergli se non sia diventato pazzo, ma lui indolente e stanco di tutto, è determinato. Ora statemi bene a sentire: il pupone si sbatte (si può dire sbatte in una recensione?) la cameriera più gnocca che abbiate mai visto in tutta la filmografia hollywoodiana, non so se mi spiego. Quindi funziona tutto là sotto, non ci sono traumi tali da volerlo allontanare dal mondo, il ragazzo è sveglio e belloccio. E voi volete dirmi che devo credere che questo ragazzone con la fidanzata più gnocca del paese e privo di ogni vocazione, decida di tentare la furbata di andare a studiare in seminario solo per fregare alla Chiesa i soldi della sua istruzione? Ma chi l’ha fatta sta pensata, Topo Gigio? Questo accade al quinto minuto circa della proiezione, capite? Dopo cinque minuti di film, decidono di minare la credibilità della storia inserendo una scempiaggine come questa. E’ dura riuscire a coinvolgere lo spettatore, dopo. Se le premesse non sono credibili, come convincervi di tutto quello che segue?
Il pupone si fa quattro anni di seminario, convinto di essere riuscito a gabbare il sistema. Se ne andrà alla faccia della Chiesa col suo bel diploma conseguito gratuitamente. E qui c’è il secondo colpo di genio dello sceneggiatore. Quello letale. Il secondo pilastro barcollante sul quale si regge tutta la costruzione. Michael manda una lettera di dimissioni prima di prendere i voti. Quella sera c’è un incidente: il suo superiore scivola dal marciapiede, urta una ciclista che viene investita da un camion e giace a terra, moribonda. Michael, il pupone ateo col clargyman, corre verso la ragazza che invece di chiedere aiuto, vedendo un prete, pensa ovviamente di chiedergli: “Mi benedica padre.”
Ovvio, no?
Non supplica di chiamare un’ambulanza, non piange chiedendo di vedere sua madre o suo figlio, no, lei si dà già per spacciata… Michael l’ateo, le dà l’estrema unzione. Il suo superiore lo vede e rimane assai colpito. Il giorno dopo, il superiore (che ha provocato con la sua sbadataggine la morte di una ragazza innocente e dedica alla cosa solo una frase distratta), porta Michael a parlare delle sue dimissioni in giardino. Perché? Perché nonostante il ragazzo gli abbia detto in maniera diplomatica di avere dubbi sulla propria fede, il caro superiore dice che c’è carenza di esorcisti e lo vuole mandare a Roma alla scuola per esorcisti. Se rifiuta, gli verranno addebitati i costi della sua istruzione.
Ma certo! Quale precettore cattolico non deciderebbe di mandare un ateo a fare un mestiere per il quale serve una fede d’acciaio? Quale diavolo di nesso logico c’è in tutto quello che vi ho raccontato sinora? Sono fatti del tutto casuali, insensati, che l’autore s’inventa solo per arrivare a realizzare un classico plot americano: il ragazzo che non ha fiducia in se stesso e non crede in niente, affronta le avversità della vita e arriva a vincere contando solo sulle sue forze.
Arrivando fino alla fine di questa – tutto sommato – noiosa pellicola, infatti, si capisce che il plot è questo: il classico dramma americano, declinato questa volta in chiave horror-religiosa. L’intelligenza dello spettatore è costantemente messa sotto stress ed è quindi impossibile appassionarsi alla vicenda.
Ci sono poi trovate al limite dell’incredibile: ricordate il famoso arredamento dell’Ikea di cui sopra? Ce n’è a mucchi. Uno su tutti: in questo fantomatico corso per esorcisti (che si tiene in un bunker in cemento, in Vaticano, simile a una stanza del Pentagono) ci sono anche delle suore… E se vi sembra strana la presenza di suore esorciste, sappiate che Michael fa amicizia con una di esse, salvo poi capire di aver preso un abbaglio perché che lei è una giornalista, impegnata a scrivere un articolo sugli esorcismi. Certo. Una giornalista che partecipa a un corso per esorcisti che si tiene in Vaticano. Normale, no?
Cose messe a caso, chiaro segnale della totale ignoranza da parte del cast produttivo e artistico di quella che è la religione cattolica, il rito dell’esorcismo e soprattutto di quella che è l’Italia dell’anno 2010. Non a caso, oltre a tutta una serie di fastidiosi stereotipi a base di traffico, clacson che suonano, vespette che schizzano ovunque e panni stesi per strada, a un certo punto della vicenda ci viene mostrato un ospedale: secondo gli americani, gli ospedali italiani sono fermi alla metà dell’ottocento. Occorre vederlo per crederci.
Questa sciatteria, questa trasandatezza, contagia anche un irriconoscibile Anthony Hopkins, che recita svogliatamente una parte che non sente, con occhi sempre vuoti, espressioni tutte uguali, spesso apparentemente incomprensibili. Il suo copione o è stato rimaneggiato in fretta e furia, oppure è stato scritto da un ubriaco. Imbarazzante.
La parte più horrorifica della storia è ben poca cosa: impariamo che un indemoniato gratta molto. Sì, gli indemoniati del film passano il loro tempo legati a una sedia a contorcere le dita e a grattare il bracciolo. Magari strabuzzano gli occhi, parlano in inglese (che si sa, per gli italiani è una lingua sconosciuta e quindi sintomo di possessione demoniaca) e poco altro. Il resto sono mura scrostate (per gli americani, Roma è come la periferia di Bombay, probabilmente) e tempi lunghissimi durante i quali succede davvero poco.
Il film finisce in classico stile hollywoodiano, come potrebbe finire uno dei vari Rocky: il giovane Michael vince perché crede in sé. Frega il diavolo con un giochino di logica degno di un poppante alle elementari e trova la fede. Quasi non ci volevo credere quando l’ho visto.
Pur avendo una buona fotografia e qualche idea interessante in fase di montaggio, con riprese non banali e qualche inquadratura interessante, è la vera sostanza del film che manca. Quello che ne esce è un ibrido che probabilmente scontenterà sia gli appassionati di genere che gli spettatori occasionali attirati dal nome del buon Hopkins. Peccato.
About Andrea G. Colombo
E’ qui praticamente da sempre. Ha dato vita a Horror.it, Horror Mania (la rivista da edicola) e Thriller Mania. E visto che si annoiava, ha pure scritto il romanzo Il Diacono. Si occupa della gestione del sito rinchiuso nel suo antro dal quale non esce quasi mai. Risponde alle mail con tempi geologici.