Sin dalle prime battute Black Swan da l’impressione di essere un vestito troppo elegante e pretenzioso indossato da qualcuno evidentemente abituato a ben altre mise.
La ballerina classica Nina (Natalie Portman) è al culmine della propria parabola professionale, tanto da essere scelta dal regista di balletto Thomas (Vincent Cassell) come interprete principale della sua versione de Il Lago dei Cigni. Ma se la timida e delicata Nina sembra nata per vestire i panni del Cigno Bianco Odette, la ragazza sembra aver molta più difficoltà a calarsi nei panni dello spietato Cigno Nero Odile.
Determinata a realizzare il proprio sogno, la timida e insicura Nina dovrà giocoforza uscire dal caldo bozzolo di fragili sicurezze in cui ha vissuto finora, e portare alla luce il proprio lato oscuro. Costi quel che costi.
Esisitono registi assolutamente in confidenza con la propria doppiezza artistica, o meglio ancora, con le molteplici facce del proprio arsenale narrativo: registi che, di film in film, sono in grado di cambiare registro espressivo e gli occhi con cui guardano il mondo, pur mantenendo intatto tanto un personale e indiscutibile marchio di fabbrica quanto la qualità dei propri lavori. Ne esistono altri invece, per cui una certa via è l’unica possibile, chè l’efficacia, l’incisività e il nerbo narrativo non sono affare da meccanico copiaincolla, e per ogni Odette non esiste necessariamente un Odile uguale e contrario.
Esisitono registi assolutamente in confidenza con la propria doppiezza artistica, o meglio ancora, con le molteplici facce del proprio arsenale narrativo: registi che, di film in film, sono in grado di cambiare registro espressivo e gli occhi con cui guardano il mondo, pur mantenendo intatto tanto un personale e indiscutibile marchio di fabbrica quanto la qualità dei propri lavori. Ne esistono altri invece, per cui una certa via è l’unica possibile, chè l’efficacia, l’incisività e il nerbo narrativo non sono affare da meccanico copiaincolla, e per ogni Odette non esiste necessariamente un Odile uguale e contrario.
Reduce dall’indigestione di – meritati – applausi per la disperata parabola esistenziale del wrestler Ram Robinson era forse da mettere in conto, considerata l’alternanza che già aveva spinto il regista di Brooklin a fare seguire al lividissimo Requiem for a Dream il più raffinato e guarda caso meno efficace The Fountain, che a ripulire il curriculum dalla greve atmosfera del wresting di provincia Aronofsky convocasse un intero balletto, a compensare il quasi picassiano Mickey la raffinata perfezione delle linee di una magrissima Natalie Portman. Nato nelle evidenti intenzioni del regista e del cosceneggiatore Andrea Heinz come attualizzazione del classicissimo thriller psicologico sul tema del doppelgänger, sin dalle prime battute Black Swan da l’impressione di essere un vestito troppo elegante e pretenzioso indossato da qualcuno evidentemente abituato a ben altre mise. Più che un’idea forte e un linguaggio proprio, Black Swan sembra reggersi su un’impalcatura che è piuttosto un asettico allineamento di luoghi comune del genere nemmeno così reinterpretati – il pigmalione del lato oscuro Thomas, gli specchi anticipatori del cambiamento in atto, la mutazione come liberazione dalle convenzioni sociali – integrati da quel tanto di psicanalisi sufficiente a rimpolpare l’impasto – la madre oppressiva e ossessionata dal controllo, la sessualità repressa della protagonista -.
La stessa Natalie Portman, al solito splendida, sembra soffrire dell’identica sindrome del personaggio chiamata a interpretare: assolutamente sul pezzo per almeno metà film, la delicata, sovraesposta fragilità di Nina inizia a risultare stucchevole dalla seconda metà in poi, sottolineata e ribadita com’è dagli episodi, e non bastano certo un paio di scene di apprezzabile quanto furbescamente ripetuto autoerotismo a evolvere efficacemente al personaggio. Black Swan è una pellicola che non dimostra di avere sangue nelle vene nè una precisa identità, così concentrata a cercare di apparire impeccabile ed elegante, e che, troppo occupata a rimirarsi nei mille specchi della palestra in cui è ambientata per buona parte della sua durata, perde quella che sarebbe dovuta essere la sua strada naturale: si addobba da thriller psicologico salvo poi cedere alle lusinghe più banali di certi espedienti da horror tout court, tradendo sostanzialmente l’iniziale impressione di voler giocare le proprie carte su un livello più sottile e raffinato rispetto alle dinamiche horror tradizionali. Ironia della sorte o sintomo evidente, è proprio questo tipo di pancia, quella volontà di far risuonare un certo tipo di corde nel suo pubblico, a tradire il tentativo di Aronofsky di elevare a nuovi livelli di raffinatezza il proprio cinema. Buon per noi – e indubbiamente per lui – che a giudicare dalla sua filmografia, la prossima volta dovrebbe essere nuovamente il turno di una bell’oretta e mezza di sangue, sudore e lacrime.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.
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