Terzo capitolo del nostro excursus storiografico lungo la strada dell’horror made in Italy: dal peplum orrorifico ai primi veri gotici nostrani attraverso l’opera consolidata di grandi maestri come Freda, Bava, Margheriti…
LA BANALITA’ DEL MALE: L’UOMO E IL SUO MOSTRO INTERIORE
Un primo esempio in tal senso fu portato da LYCANTROPUS (1961) di Paolo Heusch in cui sono la follia e la rabbia i motivi scatenanti della deformazione animalesca e omicida del protagonista, ma come dicevamo il passaggio veramente significativo è dato da L’ORRIBILE SEGRETO DEL DOTTOR HITCHCOCK (1962) di Freda, film che si rivela come una riuscita indagine su peccato, malvagità e perversione, vizi umani tutt’altro che soprannaturali, inquadrati moralisticamente dal regista come autentiche fonti del male. Vero e proprio caposaldo dell’horror gotico tricolore, il film mette in scena, grazie a un’azzeccata fotografia dai toni spettrali, le follie dei suoi protagonisti. La vicenda ha non pochi punti in comune con REBECCA LA PRIMA MOGLIE di Alfred Hitchcock (la tetra magione, il marito ossessionato dal ricordo della moglie scomparsa, l’ambigua governante, l’incendio finale) e si avvale di un valente cast, con il mad doctor Robert Flemying, Barbara Steele nel ruolo della vittima designata, Silvano Tranquilli e Harriet White, specializzati nel caratterizzare personaggi sinistri e inquietanti.
A causa della sua tematica scabrosa (per i tempi), il legame di reciprocità, solo apparentemente dicotomico, tra romanticismo e necrofilia, la pellicola, nella versione finale, è al centro di un forte intervento della censura, tanto da risultarne, a tratti, quasi incomprensibile. L’organo di “vigilanza” italiano si scatena proprio contro le sequenze a tema necrofilo di cui il film è, in sostanza, essenzialmente composto danneggiandone il senso compiuto. Fortunatamente le più recenti edizioni in dvd hanno consentito un recupero dell’opera nella sua versione integrale. Comunque nemmeno le mannaiate della censura hanno impedito al film di codificare lo stile visivo radicale di Freda, fatto di inquadrature molto ricercate nella loro componente cromatica (lezione ripresa e sviluppate in maniera sublime da Mario Bava), limitato utilizzo delle scene di dialogo a favore invece di una maggiore introspezione dei personaggi attraverso un uso attento e mirato della colonna sonora, grande attenzione per la descrizione degli ambienti grazie a sapienti e duraturi movimenti di macchina che leggono lo spazio fisico in maniera ossessiva e labirintica quale riuscita metafora del dedalo di passioni interiori che avvinghia l’animo dei protagonisti.
La strada è dunque tracciata e l’approdo concettuale cui tendere è una nuova concezione del gotico laddove la commistione tra il male e il bene si specchia nel dualismo inscindibile tra eros & thanatos.
HORROR (1962) di Alberto De Martino e dal titolo inequivocabile si ispira liberamente ai racconti di Edgar Allan Poe “La caduta della casa degli Usher” e “Seppellimento prematuro” e aggrega molti elementi congeniali alla nuova stagione del cinema di paura italiano: castelli maledetti, discendenze perseguitate, intrecci di passioni, incubi, deliri e visioni notturne, senza però eccellere nella resa estetica complessiva.
Sempre nel 1962 giunge sul grande schermo LA STRAGE DEI VAMPIRI di Roberto Mauri, film che si rifà espressamente al feuilleton ottocentesco, filtrato attraverso la contemporaneità italiana, nella messinscena di un morboso triangolo melodrammatico al cui vertice sta un decadente vampiro interpretato da Dieter Eppler. Sensualità ed erotismo inseriti in un contesto molto retrò (la fotografia e lo stile registico rimandano agli anni 50) regalano comunque un buon esempio di questa nuovo filone gotico italiano.
Tuttavia il segnale forte dell’esistenza di un nuovo cinema vitale e innovativo arriva ancora una volta da Mario Bava, vero e proprio fuoriclasse della mdp che fin dai suoi albori artistici ha sempre dimostrato di avere le stimmate dell’Autore con la A maiuscola.
Con LA FRUSTA E IL CORPO (1963) Bava ci introduce in una dimensione dell’orrore fatta di inquietanti suggestioni oniriche e dure rappresentazioni sadomasochiste (che, per ovvie ragioni vista la datazione del film, procurarono non pochi problemi con la censura). Il maestro sanremese offre una miscela di giallo, erotismo e, naturalmente, horror che si coagulano attorno a una vicenda macabra di rara crudeltà e bellezza. Gotico romantico che anticipa alcuni topòi narrativi che diverranno piatto forte del giallo all’italiana, LA FRUSTA E IL CORPO beneficia di una trama solida, di un ottimo cast (che vede protagonisti Christopher Lee e la bellissima Daliah Lavi), ma soprattutto stupisce per lo spettacolare uso delle luci e della fotografia (di Ubaldo Terzano) che rendono ogni fotogramma una piccola opera d’arte composta da colori vividi ed inquietanti al medesimo tempo.
A metà strada fra il poetico e l’eccesso sadico, Bava sceglie di rappresentare i momenti più “caldi” con classe e stile, senza mai cedere alla tentazione esploitativa ma veicolando le emozioni più forti e perverse attraverso le espressioni della Lavi, sguardi e sospiri che mischiano lussuria, rabbia e delirio in un riuscito coacervo di eros e thanatos. Il fatto che il tema della perversione sia trattato con stile dal regista non vuol dire che sia trattato in maniera debole: Bava filma le scene di flagellazione ai danni di Nevenka (la Lavia) dal punto di vista di Kurt (Lee), obbligando lo spettatore ad una forzata identificazione col carnefice, consentendo a tutti noi di liberare certe pulsioni voyeuristiche innate (<<il piacere nello scrutare il dolore>> diceva De Sade). Christopher Lee ci mette del proprio con la sua “imponente” presenza, immerso nel chiaroscuro disegnato dalle luci e dalle ombre piazzate qua e là da Bava a dipingere il suo quadro d’orrore.
La paura che il regista suggerisce è qualcosa di primitivo (come il sesso), è una mano che esce dal buio per uccidere o per strappare i vestiti. La tecnica che gioca con buio e luce genera una risonanza emotiva già di per sé stimolata dalle ambientazioni gotiche (cripte, castello, ombre, nebbie): c’è una poetica tragica, cerebrale, che ha a che fare con il dramma famigliare che rammenta certe pellicole di Corman tratte da Edgar Allan Poe. Ogni personaggio trova un suo spazio e Bava non favorisce nessuno a discapito degli altri, al di là del fatto che non c’è un eroe positivo, mentre il personaggio di Kurt diventa il pivot negativo presente e non presente (che sia morto davvero o che ci sia il fantasma sarà rivelato solo alla fine) attorno al quale ruota tutta la faccenda. Tutto il film vive di atmosfere, di chiaroscuri, di fruscii. Il vero, immanente fantasma, è quello del regista, felicemente disinteressato alla trama, pronto a concedersi ogni volta che può inimitabili svolazzi (come quando a un certo punto stacca da due che parlano e inizia a vagare per la sala, fino a una finestra sulla spiaggia)… più avvicendato verso territori mentali, verso rapporti a-sociali o d’amore/odio ben sintetizzati da un titolo che rimanda, per associazione, alla concezione “desadiana” della libido. La bella sceneggiatura, l’ottima regia (con predominanza d’uso di carrelli e soggettive) ed un intreccio indeciso tra razionalità ed irrazionalità completano un quadro complessivo di grande suggestione.
Nello stesso anno in cui Bava piazza questo piccolo capolavoro altri film e autori si segnalano all’attenzione del pubblico con opere di interesse e di una certa qualità.
In primis LA VERGINE DI NORIMBERGA di Antonio Margheriti, tratto da un romanzo di Frank Bogart dal titolo “La vergine di Nurimberg” e sceneggiato dallo stesso regista insieme a Ernesto Gastaldi e Edmond T. Greville. Anche Margheriti si avvale della presenza di Christopher Lee questa volta però impegnato in un ruolo abbastanza marginale, relegato a figura di contorno, le cui entrate in scena, comunque, sono sufficienti per dare ulteriore prova del suo straordinario talento, inconfondibile miscela di rigore interpretativo e naturalezza scenica.
Giudicato dallo stesso Margheriti come <<un film frutto esclusivamente di un interesse commerciale, girato in due settimane o poco più…>> e puntellato dallo score jazzistico composto dal maestro Ritz Ortolani, il plot vede la vicenda ambientata in Germania nel castello degli avi di Max Hunter, interpretato da Georges Rivière, tenebroso maniero in cui un essere misterioso pare abbia rimesso in funzione una terribile macchina di tortura chiamata, appunto, la vergine di Norimberga.
La novità per il cinema horror gotico italiano dell’epoca sta nell’aver ambientato la vicenda ai giorni nostri, intrecciando la visione crepuscolare della contemporaneità con la drammatica tragicità della stagione nazista. Proprio il parallelo tra la pazzia del “mostro” (il Teschio Umano, un ex ufficiale nazista dal volto scarnificato) e la follia dei “mostri” nazisti (le cui tremende gesta rappresentano l’apice della crudeltà umana) costituiscono il messaggio politico di un film che non passerà comunque alla storia come l’esempio più importante del genere nonostante alcune sequenze davvero agghiaccianti come quella del memorabile flashback, girato da Margheriti in bianco e nero, in cui vengono rievocate le immagini, crude e di forte impatto, che ritraggono i momenti dell’operazione sul volto del gerarca nazista.
Sempre Margheriti nello stesso periodo realizza un altro horror dal titolo DANZA MACABRA che rappresenta forse il suo excursus più riuscito nel filone. Pellicola particolarmente attinente alle atmosfere, ai concetti e ai “demoni mentali” della cosmogonia di Edgar Allan Poe, il film ruota attorno alla grande forza interpretativa di una grande Barbara Steele, qui alle prese con uno dei suoi ruoli più conosciuti. Storia di spettri inquieti che reiterano continuamente i loro delitti ed i loro peccati in una spirale in cui tempo e spazio perdono di significato, la vicenda si intesse di un erotismo saffico e di una componente di ineluttabilità (il protagonista che assiste impotente agli accadimenti macabri) che ne costituiscono, assieme alla dimensione onirica, lenta ed irreale, la cifra distintiva e peculiare. Girato in un gelido bianco e nero il film ravvisa però l’incedere degli anni ed alcune scelte stilistiche che all’epoca potevano costituire dei punti di forza oggi sortiscono l’effetto opposto: una certa opulenza evocativa nei suoi momenti di silenzio e nelle lunghe carrellate della mdp, espone il risultato complessivo al rischio della noia.
Decisamente più emozionante il semisconosciuto METEMPSYCO (1963) di Antonio Boccacci per la sceneggiatura di Giovanni Simonelli. Il plot narra di inquietanti omicidi compiuti in un lugubre maniero che una giovane sensitiva rivive a distanza. La ragazza, desiderosa di far luce sulla vicenda e quindi di liberarsi dei continui incubi che la tormentano, si reca sul posto assieme al padre. Insieme e dopo aver affrontato momenti di raro terrore risolveranno l’arcano. Trama essenziale e nemmeno troppo originale (il tema della reincarnazione e del tranfert psicologico era già stato affrontato dalla scuola inglese della Hammer), il film di Boccacci si segnala per la sua efficace messa in scena e per una certa attenzione coreografica nella costruzione delle sequenze d’omicidio (in particolare quella iniziale che vede un nano nella parte del sanguinario carnefice). Peccato per la povertà del budget economico che costringe l’autore a dosare le sequenze di suspense a “favore” di numerosi momenti di dialogo cui la povertà del cast (tutti attori semisconosciuti tra cui una non-protagonista si firma, addirittura, Elisabetta Regina!) non aggiunge proprio nulla di buono.
Prima di chiudersi il 1963 vede l’uscita di altri tre film horror: SFIDA AL DIAVOLO di Giuseppe Veggezzi, LO SPETTRO di Freda e, soprattutto, I TRE VOLTI DELLA PAURA di Mario Bava.
La pellicola di Veggezzi rasenta la mediocrità ed è un passaggio sinceramente marginale per la storia del genere: raccontata attraverso un lungo flashback, la vicenda vede alcuni giovani impegnati nel disperato tentativo di salvare il misterioso ed anziano castellano Mephistopheles dal Maligno che ne reclama l’anima. Interpretato da Christopher Lee (nei panni di Mephistopheles) il film è piatto, privo di pathos ed abbastanza sconclusionato dal punto di vista narrativo.
Di tutt’altra pasta LO SPETTRO di Riccardo Freda. Sequel apocrifo de L’ORRIBILE SEGRETO DEL DOTTOR HICHCOCK l’opera in questione consente a Freda di proseguire nella sua indagine sul lato oscuro dell’animo umano, quello in cui si concentrano le pulsioni più barbare e animalesche. La vicenda è semplice ed essenziale, costruita attorno a una coppia di diabolici amanti, che paiono mutuati direttamente dal classico I DIABOLICI (1957) di Georges Henry Clouzot, i quali hanno l’ardire criminale di progettare la morte dell’ingombrante marito di lei, tale dottor Hichcock appunto. Impeccabili atmosfere gotiche, con tanto di sedute medianiche, teschi, passaggi segreti, tombe profanate, veleni, sinistre apparizioni… insomma tutti gli ingredienti iconografici del gotico per eccellenza e la fortuna di avere attori decisamente in parte (su tutti la solita, insostituibile, Barbara Steele). L’unica pecca del film è forse un’eccessiva lentezza, un assenza di dinamismo e una predominanza del dialogo e del silenzio rispetto all’azione. La pellicola comunque si riscatta con sequenze di sicuro effetto, sopra tutte il doppio coup de théâtre finale della finta morte del protagonista, un escamotage di sicuro impatto che diverrà imprescindibile punto di riferimento per i thriller gotici del decennio successivo.
LA LECTIO MAGISTRALIS DI UN GENIO: L’AVVENTO DEFINITIVO DI MARIO BAVA
Se Freda, dunque, piazza ancora qualche spunto d’interesse è ancora Mario Bava che dirige la più riuscita summa teologica dell’intero filone con uno dei suoi prodotti più importanti e famosi, I TRE VOLTI DELLA PAURA. Autentico precursore di tutti gli horror a episodi (prima di Bava possiamo citare l’espressionista IL GABINETTO DELLE FIGURE DI CERA di Paul Leni oppure I RACCONTI DEL TERRORE di Roger Corman, ma nessuno di questi avrà lo stesso impatto dell’excursus baviano sugli anni a venire) il film in questione influenzerà parecchie pellicole a posteriori, in primis CREEPSHOW (1982) di George Romero.
L’opera di Bava è fondamentale perchè codifica definitivamente gli stilemi del genere e al tempo stesso li dissacra con il geniale finale auto-ironico e meta-cinematografico. Intanto sfatiamo subito il falso convincimento, sostenuto da molti, che i plot dei tre episodi della pellicola abbiano una precisa origine letteraria, traendo spunto dalle novelle fantastiche di Guy de Maupassant, Anton Checov e Lev Tolstoj.
E’ lo stesso co-sceneggiatore del film, Alberto Bevilacqua ad affermare che i nomi altisonanti di Maupassant e Checov servivano a <<coprirci le spalle>> mentre per ciò che riguarda Tolstoj il riferimento è non tanto a Lev quanto al meno conosciuto (e importante) Aleksej autore di uno scritto dal titolo I WURDALAK che può essere assunto come unico, effettivo spunto ispiratore. I tre episodi, profondamente differenti l’uno dall’altro, costituiscono per Bava l’occasione (riuscita) di una sua personale riflessione sul terrore puro calato in contesti diametralmente opposti, quello metropolitano (l’episodio IL TELEFONO, tutto ambientato in un appartamento “contemporaneo”) e quello rurale (l’episodio I WURDALAK, ambientato nella steppa russa), disegnando un percorso disseminato di riferimenti pseudo-storici legati alle tradizioni etniche delle popolazioni dell’est (il wurdalak è un vampiro non-morto secondo le credenze mitologiche di quelle terre). Il senso di questo film risiede tutto nella cifra stilistica dell’autore, nell’assoluta qualità visiva del suo lavoro e nella poliedricità dimostrata nell’affrontare, in modo sempre diverso, un unico, affascinante tema: la paura. In tal senso anche lo stesso titolo è rivelatore laddove va a indicare le varie sfaccettature di questa emozione così potente, la paura, che annichilisce, sconfigge, devasta le menti dei protagonisti.
Nei due episodi, IL TELEFONO e LA GOCCIA D’ACQUA, Bava riprende un tema affrontato nel suo proto-thriller LA RAGAZZA CHE SAPEVA TROPPO (1962) – e che svilupperà in seguito nel capolavoro SEI DONNE PER L’ASSASSINO – cioè quello della donna sola in casa, “assediata” da elementi materiali (oggetti, rumori, turbolenze climatiche) e immateriali (angoscia, ansia, visioni) e quindi così vulnerabile, così facilmente preda della paura. Nel primo, poi, approfondisce la sua esplorazione della dimensione erotica femminile, costruendo una diabolico e perverso rapporto saffico, mentre nel secondo approfondisce l’esplorazione del territorio più interiore dell’animo umano, mettendone a nudo la debolezza e la fragilità di fronte al peso delle proprie colpe, dei propri rimorsi e, ovviamente, delle proprie paure.
In mezzo ci sta l’episodio I WURDALAK, interpretato dal grande Boris Karloff, storia di crudeli e feroci vampiri della steppa russa che consente a Bava di tornare a un trattamento più classico del concetto di terrore attraverso il mito del vampirismo, riletto però in una chiave un po’ anomala, quella slava, in cui molto evidente appare anche la dimensione di non-morto e quindi di zombie. Bava somma, dunque, le caratteristiche più paurose delle due icone orrorifiche e le cala in un contesto scenografico fatto di splendidi chiaroscuri, nebbie, giochi di luci e colori, manieri fatiscenti e lande desolate dove vagano forme di non-vita fameliche e putrescenti. Entra, poi, direttamente nella storia del genere l’epilogo del film in cui Karloff, nella duplice veste di Gorka e di narratore dei tre episodi, cavalca in mezzo al bosco fino a che l’inquadratura si allarga rivelando che il suo destriero altro non è che un ronzino metallico e le frasche sono mosse da appositi mestieranti: una voluta dimostrazione di quanto effimero e illusorio sia lo strumento cinematografico e una grande prova di sarcasmo e auto-ironia di un maestro che ha sempre sorriso del suo lavoro.
Il 1964 si apre con due pellicole decisamente non irresistibili, LA CRIPTA E L’INCUBO di Camillo Mastrocinque e IL BOIA SCARLATTO di Massimo Pupillo. L’opera di Mastrocinque cerca di coniugare alcuni elementi tipici del genere (la maledizione che colpisce la discendenza di una strega) con l’unica novità rappresentata dalla concezione letale della dimensione onirica: come in una sorta di proto-NIGHTMARE la protagonista sogna le morti degli altri personaggi che poi periscono per davvero nella realtà. Uno spunto interessante che però l’autore dimostra di non saper padroneggiare poiché la vicenda si perde dietro a una sceneggiatura non particolarmente “blindata” che guarda con maggiore interesse (scelta banale) al rapporto tra la sfortunata cassandra e l’ava non-morta. Nel film di Pupillo, invece, la storia ruota attorno alle vicende di una troupe che si intrufola, senza licenza, in un castello per realizzare un servizio fotografico. All’interno del lugubre maniero, però, un membro della troupe viene posseduto dalla personalità dissociata del “boia scarlatto”, un crudele omicida giustiziato e sepolto nello scantinato parecchi anni prima. A tratti retorico e ridicolo, in particolare nella realizzazione delle scene apicali in termini di suspense, il film non si fa apprezzare in nessuna delle sue componenti tecniche (regia, sceneggiatura, fotografia) eppuresi è ritagliato fama di piccolo cult movie, soprattutto negli States.
Non va meglio con I LUNGHI CAPELLI DELLA MORTE (1964), altro film gotico di Margheriti per la partitura di Ernesto Gastaldi. Storia di vendette e peccati, fantasmi e stregonerie, costruita su un refrain (quello della fattucchiera arsa viva sul rogo che scandisce una maledizione che colpirà i suoi aguzzini) che già cominciava a puzzare di stantio, la pellicola si segnala sostanzialmente per qualche audace scena di proto-erotismo con protagonista l’immancabile Barbara Steele (in un fotogramma mostra il seno nudo) e la caratterizzazione sostanzialmente negativa di tutti i personaggi della vicenda, eroina inclusa(la Steele, molto brava nel rendere l’ambiguità sottile del suo ruolo).
Altre tre pellicole piuttosto fiacche segnano il prosieguo della stagione.
IL MOSTRO DELL’OPERA di Renato Polselli, film che l’autore iniziò subito dopo aver terminato le riprese del più riuscito L’AMANTE DEL VAMPIRO e che uscì solo nel 1964 a causa di forti problemi con la produzione. Liberamente tratto dal racconto letterario di Gaston Leroux, Polselli narra la storia di una compagnia di attori che approda a un teatro in disuso, infestato da una misteriosa presenza che si aggira negli inaccessibili sotterranei. Una delle attrici scompare nei cunicoli del fatiscente maniero per ritornare, vampirizzata, in un secondo tempo dai suoi compagni e dare inizio ad una strage abbastanza previdibile. Da questo punto in poi, il film, che aveva goduto di buoni momenti di tensione, abbandona la strada della suspense per virare verso un percorso più interessato ai primordiali paradigmi di un erotismo casereccio che non a sviluppare gli archetipi della paura. D’altronde questa sarà anche la scelta professionale definitiva di Polselli che negli anni successivi proseguirà sempre più lungo i sentieri del soft-core con qualche spruzzatina di horror e thriller, con pellicole come RITI, MAGIE NERE ED ORGE SEGRETE NEL ‘300 (1973) e LA VERITA’ SECONDO SATANA (1972),per poi approdare al vero e proprio porno con titoli allucinanti come RIVELAZIONI DI UNO PSICHIATRA SUL PERVERSO MONDO DEL SESSO (1973) e MARINA E LA SUA BESTIA (1984).
Gli altri prodotti sulla scena sono IL CASTELLO DEI MORTI VIVI e l’oscuro (nel senso di praticamente introvabile) LA SETTIMA TOMBA di tale Garibaldi Serra Caracciolo. IL CASTELLO DEI MORTI VIVI è una pellicola di basso livello complessivo, per la regia di Luciano Ricci (anche se Marco Giusti su STRACULT sostiene che la paternità del film sia da attribuire a Lorenzo Sabatini), interpretata da un cast di ottimi professionisti come Christopher Lee, Donald Shuterland e Philippe Leroy, le cui doti recitative però non sono sufficienti a risollevare le sorti di una vicenda confusa e raffazzonata, messa ulteriormente in difficoltà da un budget economico risicato.
Nemmeno il plot è particolarmente originale: si narrano le vicissitudini di un gruppo di teatranti in tournee nelle piazze di paesi sperduti che durante una delle loro rappresentazioni vengono notati da un misterioso conte Drago (Christopher Lee). Il notabile li invita a mettere in scena il loro spettacolo nella suggestiva cornice del suo castello ma ovviamente a entrare in scena saranno solo la morte e il terrore…
Qualcuno ha sostenuto che questa pellicola fosse stata in gran parte realizzata da Michael Reeves (anche se in realtà John B. Murray nella sua biografia THE REMARKABLE MICHAEL REEVES lo esclude) ma in realtà l’unica curiosità che la rende particolare è legata al fatto che rappresenta l’esordio da attore di Donald Shuterland (il quale, per rendere omaggio al regista, chiamerà suo figlio Kiefer traendo spunto dallo pseudonimo Warren Kiefer scelto da Ricci).
Ai limiti della demenzialità il livello qualitativo de LA SETTIMA TOMBA, introvabile lungometraggio del 1965 che intreccia vicende testamentarie, ricatti, sedute spiritiche ed ovviamente parecchi omicidi. Citando l’amico Bruschini <<il film prescente delle scene divertenti nella loro ridicolaggine, rimarcate da dialoghi e da una recitazione ai limiti dell’assurdo>>.
- LYCANTROPUS (1961) di Paolo Heusch
- L’ORRIBILE SEGRETO DEL DOTTOR HITCHCOCK (1962) di Freda
- HORROR (1962) di Alberto De Martino
- LA STRAGE DEI VAMPIRI (1962) di Roberto Mauri
- LA FRUSTA E IL CORPO (1963) di Mario Bava
- LA VERGINE DI NORIMBERGA (1963) di Antonio Margheriti
- DANZA MACABRA (1963) di Antonio Margheriti
- METEMPSYCO (1963) di Antonio Boccacci
- SFIDA AL DIAVOLO (1963) di Giuseppe Veggezzi
- LO SPETTRO (1963) di Freda
- I TRE VOLTI DELLA PAURA (1963) di Mario Bava
- LA CRIPTA E L’INCUBO (1964) di Camillo Mastrocinque
- IL BOIA SCARLATTO (1964) di Massimo Pupillo
- I LUNGHI CAPELLI DELLA MORTE (1964) di Antonio Margheriti
- IL MOSTRO DELL’OPERA (1964) di Renato Polselli
- L’AMANTE DEL VAMPIRO (1964) di Renato Polselli
- IL CASTELLO DEI MORTI VIVI (1964) di Luciano Ricci
- LA SETTIMA TOMBA (1965) di Garibaldi Serra Caracciolo
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