Machete kills, e lo fa come chiunque se lo sarebbe aspettato.
Machete (Danny Trejo) è un ex-federale del governo messicano con un passato tragico e un presente tutto da decifrare. Assoldato da un misterioso intermediario per eliminare lo xenofobo senatore Mc Laughlin (Robert de Niro), Machete scoprirà di essere stato coinvolto in un gioco di potere molto più grande di quanto potesse immaginare.
Con l’aiuto dell’agente Sartana (Jessica Alba) e di vecchie conoscenze dal grilletto facile, Machete farà di tutto per far piena luce su quanto accaduto, mettere in salvo la propria vita e chiudere una volta per tutte i conti con lo spietato Torrez (Steven Seagal), re della droga e motore primo di tutto il complotto.
Forse, conclusa l’eco che una volta distribuito in sala certo Machete scatenerà, sarebbe ora di finirla una volta per tutte. Intendiamoci: Machete è esattamente quello che sembra, e non solo mantiene ma va ben oltre tutte le premesse e le promesse che in questi mesi, anzi anni, di promozione ha sapientemente disseminato per il web. E diverte. Machete kills, e lo fa come chiunque se lo sarebbe aspettato: nella maniera più eccessiva e cafona possibile, una surreale carrozzone di morte e azione very grindhousy circondato da esplosioni, arti mozzati e stunt un tanto al chilo, una fraseologia tranchant con cui riempire un’ intera enciclopedia per veri duri, un casting che va a pescare nella mitologia del cinema d’azione degli eighties e unisce Steven Seagal a Don Johnson, Cheech Marin a Jeff Fahey, innaffiandoli dalle guest starring d’eccezione di Robert de Niro, dei nudi lattei di Lindsay Lohan, dell’immancabile – e ci mancherebbe – eroe dell’horror Tom Savini.
Il problema, una volta dato il colpo di grazia agli ultimi rednecks rimasti sul campo di battaglia e riaccese le luci in sala, sono gli interrogativi piuttosto ovvi che sorgono intorno ad un progetto decisamente fuori tempo massimo, sopravvissuto per più di tre anni al sostanziale fallimento commerciale della monade Grindhouse, e cresciuto a dismisura nel ventre molle del web e del suo chiacchiericcio rinvigorente, tanto da convincere Rodriguez a lasciare in ghiacciaia progetti ben più sostanziali per dedicarsi ancora ai suoi giocattoloni – non più – double bill. Ma dell’amosfera revival dei tempi di Grindhouse sono rimasti solo i buchi nelle casse della Dimensions FIlms e, venuto meno quel fondamentale spirito celebrativo e autoreferenziale, la falsa exploitation ha inevitabilmente assunto il cattivo sapore del manierismo, dello stantio pacchetto preconfezionato per gonzi fatto di montaggio farfallone, di pellicole sgranate sì, ma dalla post-produzione digitale, di sceneggiature scritte fingendosi scimmie, di eccesso calcolato e fintamente sputato in faccia al pubblico senza un minimo di incoscienza o genuinità, e di tutto ciò che può impegnare più di venti milioni di dollari di budget in una pellicola che vuole scimmiottare la peggior exploitation da due lire dei tempi andati. Roba buona a scandalizzare – o conquistare, che dopotutto è lo stesso – l’ignaro parruccame veneziano e – almeno questo – regalare una storicamente meritata visibilità festivaliera ad alcuni dei suoi protagonisti. Tutto bello, divertente ed eccessivo quindi, ma ora basta grazie. E se a Robert Rodriguez tornasse quel comprensibilissimo prurito celebrativo nei confronti di un’indimenticabile stagione del cinema di genere, che torni a dare un’occhiata al suo Dal Tramonto all’Alba, che ha insegnato a parecchia gente come si fa a produrre b-movies dannatamente ben fatti.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.