Quello che Uwe mette a nostra disposizione è un occhio nervoso e insistente, libero da qualsiasi forma di giudizio intorno a ciò che vede e alla costante ricerca di angoli dietro cui celarsi.
Il giovane Bill Williamson ha qualche problema di troppo con una società messa in ginocchio dalla crisi economica e che ritiene aliena, sovrabbondante di individui inutili quando non dannosi, ostili ed egoisti parassiti mossi da falsi bisogni e schiava di incomprensibili doveri. Ma mamma America insegna, e buon per lui che a volte la soluzione consista in una quintalata di kevlar e armi da fuoco assortite e che risponda al nome di morte&distruzione.
Chi scrive non ha mai particolarmente amato – eufemismo – i lavori di Uwe Boll: al di là dell’ ingiustificabile disprezzo preventivo che ha accompagnato e continua ad accompagnare qualsiasi cosa esca accostata al nome del regista tedesco, ho allegramente detestato grandissima parte della sua produzione relativa al primo lustro del nuovo millennio con particolare predilezione per i tie-in, salvo poi ricredermi – non senza sorpresa – davanti ai risultati ottenuti dal buon Uwe dall’allargarsi verso – per lui – inediti lidi di genere, che fosse la scorrettezza comica di Postal, il war movie di Tunnel Rats, la brutalità fatta prison flick di Stoic. Che si tratti di nuovo, intenzionale corso o di naturale evoluzione della sua cinematografia, poco importa, perché lo sguardo con cui questo Uwe Boll guarda al mondo reale fa paura cinematografica per lucidità e cinismo e il suo Rampage è materiale ad alto tasso contundente.
Quello che Uwe mette a nostra disposizione è un occhio nervoso e insistente, libero da qualsiasi forma di giudizio intorno a ciò che vede e alla costante ricerca di angoli dietro cui celarsi, sovrabbondante di agili camere a mano, spregiudicate nel piantarsi a un palmo di mano dalla quotidianità a orologeria del protagonista Bill/Brendan Fletcher (Tideland, Freddy VS Jason), grugno da british hooligan al servizio di psicosi squisitamente yankee. Due giorni di fedele cronaca prima di quell’esplosione di lucidissima follia, sullo sfondo di una Tenderville, Oregon, grigia e operosa come il campione medio yankee al centro del suo dramma collettivo, un sistematico massacro senza quartiere dove spesso alle scene della mattanza va sostituendosi il tremolante primo piano sul volto mascherato di Bill, ai suoni e ai rumori di quell’apocalisse il suo respiro affannoso e determinato, definitiva conferma della sostanziale scelta di campo del regista: non è la banale spettacolarizzazione del massacro a interessarlo, quanto l’uomo al centro dello stesso, motore unico fatto di carne, sudore, rabbia, dolore ed elaborazioni psicotiche. Dal brutale, definitivo riscatto di Brendan si salva solo chi non accetta le regole del gioco, o nemmeno le coglie: l’eccezionale scena all’interno della sala bingo è l’occasione ideale per Boll di dare sfogo a quella vena ironica e provocatoria che ha sempre fatto capolino nei suoi lavori e per dare un’ulteriore, fondamentale sfaccettatura a un dramma che più che oggetto della narrazione è un pretesto per altro. E da qui la causticità di un finale shock che iniziamo presto a temere e che prende lentamente forma sotto i nostri occhi, forse poco probabile in termini realistici ma assolutamente efficace nel mettere alla berlina l’assoluto nulla (auto)critico che un dramma del genere è in grado di creare, di fronte alla semplicità con cui ci si illude che vecchie scope siano in grado di nascondere sotto i mobili nuove, sconosciute e ben più tenaci polveri.
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About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.