Thirst

Ha molte, moltissime forme la Sete che arde bocche e spiriti dei protagonisti dell’ultima fatica di Chan-wook Park.

Il coreano Sang-Hyeon (Kang-ho Song) è un prete cattolico che offre il proprio corpo ad un team di ricercatori impegnati nello sviluppo del vaccino di un misterioso virus. Come molti altri prima, anche padre Sang viene ucciso dal morbo, ma una delle innumerevoli trasfusioni a cui è stato sottoposto durante il ricovero sembra averlo messo in contatto con un tipo di sangue molto particolare, che lo rende in tutto e per tutto un vampiro.

Condannato a nutrirsi di sangue per non morire un’altra volta pur non tradendo gli ideali di umanità a cui ha votato la sua precedente vita, padre Sang cerca la via di una bizzarra normalità a casa di un vecchio amico d’infanzia, luogo grottesco dove sembra trovare rifugio ogni campione dell’umana imperfezione, non ultima la bella Tae-Ju (Ok-bin Kim), sottomessa moglie dell’amico con cui instaurerà un rapporto di profonda empatia prima, e qualcosa di ancora più intenso e decisamente più morboso poi, imboccando una discesa di cui sarà sempre più difficile vedere la fine…

Ha molte, moltissime forme la Sete che arde bocche e spiriti dei protagonisti dell’ultima fatica di Chan-wook Park, la prima almeno nominalmente horror di un regista che, ben lontano dal saltellare secondo mera necessità tra i generi, ha sempre più indirizzato il proprio percorso professionale all’esplicita creazione di golem cinematografici sempre più stratificati e dalla molteplici teste splendidamente in accordo l’una con l’altra, funzionali ad un’impellenza narrativa e ad un imperativo stilistico e visuale frutto di una crescita continua; con questo splendido Thirst il percorso è probabilmente andato completandosi. Riprendere con efficacia e rinnovate energie quello che innegabilmente è il leit motiv della sua principale urgenza cinematografica – una profonda riflessione sulla sostanziale incompatibilità tra una qualsivoglia direttiva morale e l’oggettiva condiziona dell’essere umano in quanto entità costantemente imperfetta – dopo la potente e tanto celebrata Trilogia della Vendetta avrebbe paralizzato e dirottato verso altre mete ben più di un professionista. Quattro anni di sospensione e la deliziosa esperienza surreale di I’m a Cyborg, But That’s OK hanno riaffilato i coltelli con cui ha fatto a pezzi la tanto mal sfruttata figura del vampiro dell’ultimo lustro, ricomponendola poi pezzo per pezzo e dandogli una ragione di (non)vita ben più nobilitante di quella di banale succhiasangue strappamutande, eleggendolo a detonatore di ogni conflitto, pubblico o intimo che sia, che pazientemente covava sotto le spesse ceneri di convenzione morale del piccolo microcosmo al centro della vicenda. Il mondo in cui si muove il nuovo, impossibile padre Sang – che si nutre delle sacche di sangue trafugate dall’ospedale dove offre conforto spirituale ai malati – brulica di individui più o meno consciamente schiavi delle proprie personalissime ossessioni e bisogni e di situazioni pronte a tradirli in ogni momento, che si tratti della tirannica Lady Ra (Hae-sook Kim) morbosamente ossessionata dalla saluto dell’inetto figlio Kang-woo (Ha-kyun Shin) , della sposa/schiava e coprotagonista Tae-ju (la bravissima Ok-bin Kim), dei gruppi di adoranti fedeli pronti ad accogliere il rinato padre Sang come una sorta di nuovo Messia o delle irrinunciabili partite settimanali a Mahjong i cui esiti sono capaci di ribaltare gerarchie e minare le piccole grandi sicurezze di soggetti coinvolti: ognuno con una propria, inestinguibile, intima Sete a cui è stato in grado di opporre solamente fragili, inefficaci palliativi esistenziali.

Chiunque poi per scelta o per caso si ritrovasse ad opporsi a quello che sembra essere un’ineluttabile legge universale, è decisamente destinato ad una fine ancora più infame: le parabole esistenziali del vampiro per caso padre Sang, progressivamente sempre meno capace di gestire la propria condizione e di fare i conti con gli imperativi morali che si era imposto, e della vampira per scelta Tae-Ju, illusasi fino alle ultime battute di poter trovare in quella nuova, predatoria condizione un definitivo riscatto dalle pochezze umane, sono lì a dimostrarlo. Nulla, tantomeno l’amore, sembra essere in grado di scardinare quella gabbia creata da un’innato, potentissimo senso di colpa in grado di soggiogare eternamente l’umanità tutta e divorarne lentamente l’anima, sempre che ne abbia una, fino all’inevitabile castigo. Una posizione dalle mille implicazioni, impegnativa e cosmicamente nerissima che Chan-wook Park si guarda bene dall’appesantire con scelte stilistiche prevedibili e univoche: basta la suggestione di un’innocua ombra d’albero e il suo occhio si perde in attimi di speculazione che sono pura poesia visuale, salvo poi riprendere con mano salda il filo nero del discorso, almeno fino all’occasione successiva, in uno splendido matrimonio tra acre sostanza ed elegantissima forma che ha del geniale. Mai banale, pur non perdendosi in semplici esercizi di stile e parlando lingue cinematografiche sempre diverse, il regista svaria su tutto il fronte emotivo senza mai lasciarsi sfuggire di mano il mostro che man mano è andato creando e che a seconda del punto d’osservazione è ora spaventoso, ora ridicolo, grottesco, struggente, ora tutte queste suggestioni contemporaneamente. Centotrentatre minuti di delizioso e contundente cinema di primissima categoria, splendidamente incorniciati da un’inevitabile sequenza finale in grado di condensare in pochissimi istanti tutti gli elementi cardine di una poetica complessa, forse discutibile, comunque splendidamente cinematografica. Capolavoro, cinema nella più pura accezione del termine, di quel cinema in grado di ripulire occhi, cervello e cuore dalle infinite tonnellate di ciarpame quotidianamente in transito sui nostri schermi.


Thirst (Corea del Sud, 2009)
Regia: Chan-wook Park
Sceneggiatura: Chan-wook Park, Seo-Gyeong Jeong
Interpreti: Kang-ho Song, Ok-bin Kim, Hae-sook Kim, Ha-kyun Shin
Durata: 133 min.
Distribuzione: Universal Studio

About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.

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