E’ più probabile che Daybreakers entri negli annali del cinema horror più per la prima esperienza orrorifica di un discreto quanto al solito melanconico Ethan Hawke che per la sua assoluta qualità filmica.
Autunno 2004, un’era cinematografica fa: (appena) prima del fiorire del torture porn, della teen-saga Twilight, del mockumentary come antidoto alla crisi da foglio bianco, la Lionsgate acquista da una coppia di fratelli reduci da un discreto esordio cinematografico una sceneggiatura che si promette narrativamente enorme, che piazza vecchi boogeyman in un futuro prossimo mettendogli in mano il mondo intero. Poi fu silenzio.
2019: un misterioso virus ha trasformato la grandissima parte della razza umana in vampiri, e quel 5% della popolazione risparmiata dall’epidemia viene tenuto in vita unicamente come riserva di sangue. Ma il numero degli umani è in costante calo, e la crescente carenza di linfa vitale minaccia d’estinzione la nutrita popolazione dei vampiri. Mentre la tensione intorno alla soluzione del problema monta a dismisura, l’ematologo Edward Dalton (Ethan Hawke), è al lavoro nel tentativo di sintetizzare un composto che possa nutrire gli uni e risparmiare la vita agli altri. Ma un inatteso episodio lo metterà nella condizione di decidere del futuro di umani e vampiri in un modo che mai avrebbe potuto prevedere…
Le intenzioni – e le promesse – più o meno confessate ad ogni livello produttivo nei pressi degli uffici Lionsgate riguardo a Daybreakers erano quelle di dare vita a una sorta di nuova definizione del sottogenere vampirismo, una pellicola che avrebbe dovuto dare una di quelle tanto necessarie quanto a volte traumatiche rinfrescate ai nostri cari, polverosi mostri, la definitiva proiezione dell’archetipo del vampiro nel terzo millennio. Qualcosa che fosse in grado di giustificare un’incredibile travaglio durato sei anni, e giunto alla conclusione solo una manciata di mesi fa accompagnato da un hype mediatico che, dopo aver raggiunto il suo climax l’anno scorso, ha finito per sgonfiarsi e rielaborarsi in forme a metà tra l’atto di fede e un complice darsi di gomito. Ed è in questo paradossale clima da ex-next big thing che Daybreakers si è ritrovato a esordire negli USA il mese scorso: un clima che, una volta visto il film, paradossalmente non ha potuto che giovargli. Perché, a scanso di equivoci, è più probabile che Daybreakers entri negli annali del cinema horror più per la prima esperienza orrorifica di un discreto quanto al solito melanconico Ethan Hawke che per la sua assoluta qualità filmica. Tutt’altro che un film banalmente brutto, l’ultima fatica dei fratelli Spierig è piuttosto la classica montagna che partorisce il topolino, una pellicola che, pur non tenendo conto del’ alta aspettativa creatagli intorno e poi delusa, sfrutta una ben bassa percentuale delle potenzialità narrative che il soggetto avrebbe effettivamente offerto.
Gli Spierig avrebbero avuto a disposizione un intero mondo nuovo da mettere su pellicola, un’oscura e contraddittoria società intrisa di estetica da science fiction e paure assolutamente moderne e reali, seppur filtrate dalla componente orrorifica: ottima, potenziale metafora dell’imminente esaurimento delle risorse offerte dal nostro pianeta, Daybreakers avrebbe potuto unire i due colossi del cinema di genere in un progetto moderno e, a scanso di equivoci, prezioso come l’ossigeno in questi tempi di vacche magre. Ma piuttosto che esplodere in tutte le sue mille implicazioni intorno alle vicende dei protagonisti, mantenendo un’ottica di ampio respiro e non dimenticando le macro-implicazioni di quanto sceneggiato, dopo una rapida introduzione l’intrigante mondo nato dalla fantasia dei due fratelli tedeschi fa un deciso passo indietro, accontentandosi di un ruolo di secondo piano causa zoommata intorno alle esclusive, godibili quanto sempliciotte vicende del dott. Dalton e del di lui compagno di viaggio Elvis – un Willem Defoe a onor del vero sempre a proprio agio in ruoli di genere – certamente legate a filo doppio all’assunto iniziale ma che tradiscono una certa faciloneria nello loro svolgimento, ora dalle marcate tinte action, ora più orrorifiche, con un crescendo splatter che certamente sazierà anche i palati più assetati. Certamente dettata da mere necessità commerciali, l’eccessiva semplificazione di una vicenda che avrebbe potuto garantire ben altro spessore e complessità lascia parecchio amaro in bocca, considerata poi l’evidente attenzione dedicata dalla coppia di registi alla confezione della pellicola, con un certo non originale ma alquanto efficace lavoro alla fotografia e alla post-produzione, ormai suo indiscutibile cavallo di battaglia. Intossicati dalla recente indigestione di teen-vampiri e tempeste ormonali dai canini aguzzi, il rischio è quello di accogliere quasiasi progetto appena più adulto come il tanto atteso vendicatore di una virilità vampiresca ultimamente fin troppo villipesa da pellicole per ragazzine. Gli entusiasti avvertirebbero gli stessi slanci d’esaltazione non fossimo così costantemente alla ricerca di pellicole davvero valide e coraggiose, e gli ultimi vampiri seri transitati dalle nostre parti risalissero ormai a più di un anno e e mezzo fa?
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About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.